Questa è l’ultima fotografia che ho scattato a Sarajevo, ieri mattina, giusto un’oretta prima di andare in aeroporto. Il vento aveva già iniziato a fare il suo giro (poi avrebbe impedito il volo e mi avrebbe messa su un pullman facendomi attraversare il paese per arrivare infine a casa a mezzanotte passata). Chi sa, mi anticipa che lo sentirò ancora dentro, quel vento, per un bel po’. Ma il mal di Sarajevo si era fatto sentire già prima che ci mettessi piede. Una nostalgia preventiva. Forse perché, come ha detto una nuova amica conosciuta poco prima partenza, a Sarajevo ci accomunano cose. E poi però venne questo weekend che sciolse ogni cosa e trasformò un pezzo di me in qualcosa di diverso che non pensavo di contenere, che ancora non conosco veramente ma che sicuramente so di voler amare. Come mi sono innamorata, perdutamente, ardentemente, immensamente di questa città mondo che si chiama Sarajevo.
martedì 18 novembre 2025
Il mal di Sarajevo
domenica 16 novembre 2025
La Sarajevo socialista
Oggi abbiamo fatto una lunga passeggiata per esplorare la Sarajevo socialista. Quella in cui, come ci spiegava Ernim, se avevi la tessera del partito avevi l’istruzione e la casa e il lavoro assicurato (però per pregare, quale che fosse la tua fede, era meglio se restavi chiuso a casa tua). Abbiamo seguito la strada lungo il fiume Miljacka, superato le mosche e le chiese e le sinagoghe. Abbiamo passato il Ponte Latino dell’attentato di Gavrilo Princip e poi giù giù, verso il cubo giallo che ospitava e ospita l’Hotel Holiday Inn, da cui i giornalisti di tutto il mondo raccontarono la guerra e che oggi ancora funziona senza troppo lasciar spazio alla storia che gli appartiene. Abbiamo esplorato il museo storico, che mostra la vita durante l’assedio, e poi quello nazionale che è dedicato ai minerali, agli alberi, agli animali, alle archeologie e alle popolazioni della Bosnia. Un museo ottocentesco classico, questo secondo, in tutto e per tutto simile a quelli delle altre capitali europee. E poi accanto a lui la struttura di cemento e vetro e metallo ispirata a Mies van der Rohe, un esempio di modernismo perfetto che le cannonate hanno, curiosamente, tinto di brutalismo. Proprio lì sotto c’è il Cafe’ Tito, pieno di ragazzi e di insegnanti, di qualche nostalgico anche, e pure di bambini che si arrampicano sui carri armati tutto intorno e danno loro l’unico senso che dovrebbero sempre avere: essere nulla di più che macchinine da guidare lungo il prato mentre ci si arrampica tra gli alberi e si gioca a nascondino. C’è questa cosa disarmante e commovente a Sarajevo: non sempre hanno portato via le armi, non hanno nemmeno fuso tutte le granate e i proiettili e i missili. Li hanno trasformati. Ce lo ha ben spiegato ieri il ramaio Renan Hidić (che lavora qui coi suoi tre fratelli dopo aver ereditato l’attività dal padre che a sua volta la aveva ricevuta dal nonno): se prendi un proiettile e lo lavori con cura e lo tramuti infine in vaso da fiori istoriato con motivi ottomani, tu hai trasformato qualcosa nato per dare la morte in uno spazio dedicato alla bellezza e alla vita. In un verbo solo: hai disinnescato la bomba.
La Biblioteca Nazionale di Sarajevo
Nella notte tra il 25 e il 26 agosto 1992 una serie di bombe distrugge oltre 2 milioni di libri, manoscritti, lettere, riviste, documenti conservati nella Biblioteca Nazionale di Sarajevo, emblema di una cultura aperta, molteplice, plurale. Pompieri e impiegati cercano di salvare il salvabile e la bibliotecaria Aida Butorovic perde la vita. Poche settimane dopo, il violinista Vedran Smailović sfida i cecchini e si mette a suonare, lì in mezzo alle rovine. Lo ha già fatto pochi mesi prima, suonando per 22 giorni in memoria di 22 vittime del conflitto. A Sarajevo quando si parla dell’ultima guerra ci si riferisce a quella del ‘92. Noi visitatori non capiamo subito, l’ultima guerra per noi è quella del 1945 e dobbiamo fare un salto di pensiero per comprendere che qui anche le parole comuni hanno un significato tutto diverso. Perché questa è la città dove il festival del cinema nacque in pieno assiedo, dove il teatro continuò a funzionare, dove Susan Sontag mise in scena il suo Godot durante la guerra, dove Zatklo Dizdarevic e il suo giornale continuarono a testimoniare, dove le gallerie organizzarono mostre e vernissage, dove la vita culturale, nonostante la biblioteca devastata, non venne mai fermata. Non lasciarsi uccidere da vivi. Continuare sempre a suonare. Come fu per Sarajevo.
sabato 15 novembre 2025
Sarajevo, tornare a casa
Sarajevo e’ islamica, ortodossa, ebraica, cattolica, pagana. Sarajevo e’ romana, ottomana, austroungarica, mitteleuropea. Sarajevo e’ giocosa come gli anziani signori che si sfidano a scacchi per strada ed e’ studiosa come i ragazzi pieni di libri e appunti a ogni caffè. Sarajevo e’ un mix in equilibrio precario, il cuore di questo paese che si chiama Bosnia e che ti fa sentire a casa non appena ci appoggi il piede. Forse per questo in tanti, come ci ha raccontato Ermin ieri, qui si sono fermati e son convissuti per secoli: alle venti, proprio all’incrocio della strada principale, la voce del muezzim che arriva dalla moschea si mischia con quella delle campane della cattedrale del Sacro Cuore, a due passi dalla sinagoga e poco oltre la chiesa ortodossa. E quando è periodo di Ramadan, al suono del cannone che segna il momento dell’Iftar, il pasto serale da consumare insieme, lo spiazzo davanti alla Fortezza Gialla si riempie di persone con le proprie cibarie e la città tutta e’ in festa. Come le cuccette dei treni notturni che negli anni Novanta ci portavano da Milano a Lecce ogni estate e, passato Rogoredo, iniziava quella cena condivisa coi sapori del sud. Ovunque l’odore del nostro ritorno a casa.
Galerija 11/07/95 - Sarajevo
L'assedio di Sarajevo
“Come ha potuto Sarajevo resistere a 1425 giorni di assedio? Come è sopravvissuta nonostante le granate, i cecchini, la fame, la mancanza di tutto, le morti?
venerdì 14 novembre 2025
Sarajevo, Sarajevo
Delle primissime ore qui dovrei portarmi dietro la luce sul legno della fontana Sebilj (bevi la sua acqua, tornerai a Sarajevo), gli artigiani che battono il rame a bascarsija, le rose di Sarajevo che venivo a cercare (buchi di granate riempite di vernice rossa perche’ l’unico modo per andare avanti è non cancellare), la preghiera alla moschea di Gazi Husrev Begova coi suoi infiniti gatti. E ci sarà tutto e tutto porterò.

















