lunedì 25 gennaio 2021

Viaggio in Italia con Virginia

“Come una balena che lascia scorrere in bocca l’acqua marina”


Per la Pasqua 1904 gli Stephen, assieme a Gerald Duckworth, si recano per la prima volta in Italia. Se escludiamo il passaggio nel Nord della Francia di quando è ancora bambina, per Virginia si tratta del primo viaggio all’estero. In Italia, ma in generale durante tutti i suoi viaggi, la Woolf ha la capacità di spostarsi nel tempo oltre che nello spazio e torna spesso con la memoria nei suoi “luoghi” per eccellenza. Primo tra tutti: Talland House, a St Ives, in Cornovaglia, dove da bambina ha trascorso le sue estati e dove sempre ritrova il suo paradiso perduto e il nettare per la sua creatività. St Ives rimane per lei un metro di paragone costante. Non stupisce che Al faro – l’opera che meglio ritrae la figura di sua madre Julia seppur ambientato sull’isola di Skye sia in realtà ispirato proprio alle terre di Cornovaglia che Virginia ben conosce. Nella sua scrittura, la natura di St. Ives si rispecchia in quella scozzese di Skye: poco importano le imprecisioni geologiche o naturalistiche, quello che conta è per la Woolf l’essenza delle cose, il “mappamondo” che va via via componendosi nella sua testa. Come le rivela Vanessa, rievocando le persone che ha amato e i luoghi in cui è stata Virginia riesce, ogni volta, a compiere il suo miracolo: riesce a resuscitarli.





Tracce dei viaggi di Virginia le troviamo nelle lettere, nei diari, ma anche nelle opere narrative. Nelle sue memorie, Leonard scrive che durante i viaggi all’estero Virginia entra in uno stato di vigilanza passiva e lascia che i suoni e le immagini straniere le scorrano nella mente. Si comporta come una balena: l’acqua marina le attraversa la bocca e lei inghiotte tutta quella flora e quella fauna che diventeranno poi alimenti per la sua fantasia e la sua arte. Tornata a casa, arriveranno il momento della digestione e, quindi, della creazione. Quello che di volta in volta colpisce Virginia è un dettaglio microscopico, una storia apparentemente insignificante, una riflessione sfuggente. Quasi mai indugia sulla descrizione pedissequa dei grandi monumenti, dei grandi capolavori: quelli sono argomenti che lascia alle guide rosse Baedeker (che pure porta sempre con sé). Il suo approccio è totalmente diverso. Al punto che, in certe circostanze, una fiera di pecore può diventare per lei ben più interessante dell’Acropoli di Atene. 





Dal percorso intimo di lettere e diari, un percorso non destinato alla pubblicazione, emergono così letture, minuzie e anche gusti personali di Virginia: l’amore per i maccheroni e le frittate, la passione per il caffè appena fatto, il desiderio di una passeggiata al mercatino delle pulci, la gioia nell’assaporare un buon bicchiere di vino italiano, un abitino azzurro steso ad asciugare che colpisce la sua immaginazione, il rammarico per un pacchetto di sigarette sbriciolatosi durante il viaggio (toccherà a Leonard ripulire il pasticcio con il suo fazzoletto di seta).


Venezia: un arrivo burrascoso


È la mezzanotte di sabato 2 aprile del 1904 quando Adeline Virginia Stephen incontra per la prima volta Venezia. Lei, Nessa, Thoby, Adrian e Gerald Duckworth sono partiti in treno due giorni prima da Parigi, superando una tempesta di neve all’altezza del San Gottardo. Ma quella notte a Venezia non trovano posto in nessun albergo, nemmeno in quelli suggeriti dall’amica Violet Dickinson, con cui Virginia intrattiene ormai da due anni una fitta corrispondenza. Affetto fondamentale della sua giovinezza, Violet è stata dapprima un’amica di Stella, figlia del primo matrimonio di Julia Jackson con Herbert Duckworth. È una donna slanciata, aristocratica e originale. Ha quindici anni più di Virginia e proprio a lei la Woolf indirizza lunedì 4 aprile la sua prima lettera dalla laguna – la sua prima lettera dall’Italia – raccontando di quella tumultuosa notte, trascorsa infine in una bettola dietro piazza San Marco. Un inizio di soggiorno tempestoso in una fase delicata per gli Stephen, che un mese e mezzo prima hanno perso il padre e hanno intrapreso quel viaggio per cominciare una nuova vita. 





Così, quella prima domenica veneziana non è dedicata ai monumenti e ai musei, ma alla ricerca di una diversa sistemazione, che viene infine faticosamente rintracciata. Vale la pena immaginarceli per un istante questi cinque giovani e luminosi ragazzi inglesi che girano per i calli cercando di parlare italiano e di evitare le trappole per turisti che già al tempo terrorizzano i viaggiatori. Sono gli stessi che a breve daranno vita al gruppo di Bloomsbury: giovani che si chiamano per nome e si salutano baciandosi, ragazzi anticonformisti e pieni di entusiasmo per cui vivere significa creare: creare rapporti, creare legami, creare amicizie, creare parole, creare realtà. Certo, Gerald non è di buon umore e si muoverebbe solo via acqua, ma gli altri sono pieni di un’energia irrefrenabile e non par loro vero di essere in quella città così a lungo immaginata e fantasticata. Venezia è il luogo da cui partire per inventarsi un nuovo inizio.


Il Canal Grande: le gondole, i traghetti, il mito


È infine in un albergo affacciato sul Canal Grande che il gruppo trova tre camere libere. Nelle sue lettere Virginia parla della stanza sua e di Nessa, all’ultimo piano di un Grand Hotel di cui oggi sulle guide veneziane non ci sono tracce. Consultando gli archivi e chiedendo aiuto alle associazioni e alle realtà locali, scopriamo che all’epoca il Grand Hotel si trovava a Palazzo Ferro Fini, poco distante dal punto in cui il Canal Grande incontra il Canal della Giudecca. Sotto la finestra di Virginia, i gondolieri fanno baccano, mentre sulla riva opposta Santa Maria della Salute si staglia in tutta la sua bianca bellezza, la stessa ritratta da Vanessa Bell nel 1948 in On the Steps of Santa Maria Salute. 




Accanto alla luce, si delineano le sfumature e le ombre. Profetizzando le atmosfere de Morte a Venezia di Thomas Mann di pochi anni dopo, Virginia scrive a Violet: “Venice is a place to die in beautifully”. Perché, per quanto magnifica, Venezia è profondamente malinconica e depressiva e la fa sentire come un “bird in a cage”, la stessa formula con cui anni dopo, evocando le parole della poetessa, la Woolf descriverà Elizabeth Barrett Browning in Flush . Accanto alla Venezia immaginata e letteraria, c’è naturalmente la Venezia dell’arte, cui la presenza di Vanessa la avvicina inevitabilmente: nella città in cui pochi anni prima è nata la Biennale d’Arte Moderna, tra le folgorazioni di Virginia troviamo quella per Tintoretto: potente, appassionato, ribelle, Tintoretto è il pittore che anche durante la peste del ‘500 non ha mai abbandonato quella laguna amatissima, dipingendo sempre con vigore e potenza straordinari. “Se non lo hai visto – annota Virginia – non capisci cosa possa fare la pittura”. 






Venezia è un vortice di emozioni e di scoperte. Ma è anche tradizione: rappresenta l’emblema della città romantica. Per tutti, anche per lei. Come potrebbe essere altrimenti? Allora non stupisce che nella sua biografia dell’amico pittore e critico d’arte Roger Fry, la Woolf scriva: “To fall in love for the first time and in Venice in the spring must have been the most exciting of all those exciting new experiences”. Sì, Venezia è amore. E nel settembre del 1912 Virginia decide di tornare in città assieme a Leonard per la luna di miele. I “lupi” celebrano la propria unione con un viaggio che tocca il Somerset, la Francia, la Spagna e l’Italia, dove giungono con un treno preso a Marsiglia e diretto a Venezia. In giornate piene di vento, Virginia soggiorna nuovamente sul Canal Grande, questa volta in Casa Biondetti, oggi confinante con la Peggy Guggenheim Collection.





Siamo nel sestiere di Dorsoduro, in una dimora settecentesca appartenuta alla pittrice Rosalba Carriera, che è stata però anche abitazione di una scrittrice americana cara ad Henry James, Constance Fenimore Woolson, che qui a Venezia morì suicida nel 1894, gettandosi in acqua dalla finestra. Come per Constance, che aveva a lungo descritto nei suoi libri la solitudine visionaria e inquietante della laguna, così per Virginia Venezia è un luogo che avvolge con sfumature di morte e anche con la sua ammaliante decadenza: le giornate stanche, racconta Leonard nel 1912, Virginia le trascorre sul sofà a mangiare cioccolatini e sfogliare lo Strand Magazine





Emoziona pensare come, pochi anni dopo, nel 1919, in un passaggio di Notte e Giorno la Woolf dia vita a un curioso dialogo tra Katherine e Ralph, dedicato proprio alle aspettative che questa città tanto impregnata di storie crea in chi si prefigge di visitarla:

« “I’ve never seen Venice,” he replied. “I keep that and some other things for my old age.” “What are the other things?” she asked. “There’s Venice and India and, I think, Dante, too.” She laughed. “Think of providing for one’s old age! And would you refuse to see Venice if you had the chance?” Instead of answering her, he wondered whether he should tell her something that was quite true about himself; and as he wondered, he told her. “I’ve planned out my life in sections ever since I was a child, to make it last longer. You see, I’m always afraid that I’m missing something”». 


Aver sempre paura che manchi qualcosa: un sentimento che Virginia ben conosce.


Firenze e Prato o degli Inglesi in Toscana 


Per spostarci sulla nostra cartina italiana, lasciamo per un istante Leonard e Virginia al loro viaggio di nozze e facciamo un passo indietro nel tempo, tornando nuovamente al 1904 e a quel primo viaggio dei fratelli Stephen. 




Dopo la tappa veneziana, l’itinerario dei giovani inglesi prosegue infatti verso l’Italia centrale. Il 25 aprile 1904 Virginia è al Palace Hotel di Firenze e scrive al suo “carissimo rospo”, la cugina Emma Vaughan. Anche in questo caso grazie all’aiuto delle associazioni locali possiamo avere conferma del luogo in cui Virginia compose quella missiva: il Palace Hotel, che oggi non esiste più, si trovava infatti in Palazzo Lanfredini, affacciato sull’Arno, poco lontano da Ponte Vecchio. In una guida di pochi anni dopo, di quell’hotel troviamo un’elegante pubblicità che spiega che l’albergo vanta ascensore, bagno al piano, una cappella, luce elettrica e riscaldamento centralizzato in tutte le camere, saloni, terrazza, giardino d’inverno e un vicino omnibus che conduce alla stazione. Un alloggio con tutti i comfort, alcuni probabilmente aggiunti dopo il soggiorno di Virginia, visto che i documenti segnalano una ristrutturazione proprio nel 1904. Qui la giovane Stephen è a suo agio e si trova bene (senz’altro meglio che nel terribile albergo in cui ha passato la sua prima notte a Venezia). Non manca però di sottolineare quanto sia felice di essere inglese e come tutto ciò che riporta alla Gran Bretagna le trasmetta un senso di ordine e pulizia. Se la vista delle colline la affascina, la permanenza italiana risulta infatti decisamente faticosa: le persone sono invadenti, le ferrovie e le strade non adeguate e ben diverse da quelle cui è abituata. 






Ciononostante, la Toscana è piena di inglesi che parlano fiorentino con accento anglosassone, frequentano caffè letterari, scoprono le bellezze e le squisitezze gastronomiche locali, si riuniscono nei salotti per far conversazione, cercano la loro “camera con vista” affacciata sull’Arno. Oltre ai Grand Tour Settecenteschi, è stato anche l’amore per queste terre della Regina Vittoria a rendere Firenze una meta particolarmente cara agli inglesi: durante il suo lungo regno, The Queen ha visitato per tre volte il capoluogo, usando come pseudonimo quello della Contessa di Balmoral. Difficile però che il suo treno speciale composto di guardie scozzese in kilt, servitori indiani e innumerevole personale di corte, passasse inosservato per le vie cittadine…




Lasciamo la Regina alla sua variopinta corte e concentriamoci sugli intellettuali: in Toscana tra fine Ottocento e inizio Novecento passano, tra gli altri, Nathaniel Hawthorne, Henry James (amico di Leslie Stephen), Violet Trefusis (uno dei grandi amori di Vita Sackville-West – oltre che ispiratrice del personaggio di Sasha in Orlando – che morirà a Villa dell’Ombellino), Vernon Lee (che dal 1889 abiterà nella sua proprietà fra Firenze e Maiano e si spegnerà a Firenze), David Herbert Lawrence, Hermann Melville, E. M. Forster, Elizabeth Barrett e Robert Browning oltre alla stessa Vita Sackville-West, che a Firenze impara l’italiano sin dal 1908, quando visita la città assieme a Violet Trefusis e a due governanti. 




A Firenze, tutti costoro hanno l’opportunità di sentirsi a casa e di rimanere sempre informati di quanto accade Oltralpe, soprattutto grazie al Gabinetto Scientifico Letterario di Giovan Pietro Vieusseux – aperto all’inizio 1820 – che mette a disposizione dei suoi frequentatori 140 giornali internazionali, una biblioteca di 20.000 volumi per il prestito e una biblioteca di consultazione. Il Gabinetto è una meta imprescindibile per tutti gli intellettuali che rimangono per qualche tempo in Toscana: è un luogo di cultura, di incontro, di scambio. Vi si accede su abbonamento e, sfogliando i cataloghi storici, ci imbattiamo in un personaggio che con la famiglia Stephen avrà un legame molto speciale, al punto da portare un pezzetto di Bloomsbury tra i boschi fiorentini di Villa I Tatti, poco lontano da Fiesole. 


I boschi fiorentini e Gordon Square o dei sei gradi di separazione


Lo storico dell’arte di origini lituane ma naturalizzato americano Bernard Berenson attiva la sua iscrizione al Gabinetto Vieusseux nel 1889. Un’intelligenza vivace e un occhio attento e pressoché infallibile, Berenson trasloca infatti a Firenze e viaggia tra Toscana, Umbria, Emilia-Romagna, Marche e Italia settentrionale: vuole studiare dal vivo la pittura italiana, conoscerne i dettagli, i colori, le collocazioni, le funzioni originarie. Dai suoi viaggi deriva alcuni agili volumi che diventano una sorta di vademecum per storici dell’arte: fitte liste piene di nomi e luoghi cruciali del Rinascimento italiano, un metodo e uno stile che colpiscono e contribuiscono a formare lo stesso Roger Fry, che preferirà poi dedicarsi alla pittura contemporanea. 





Con Bernard c’è Mary Costelloe, che ha lasciato il marito Frank per seguire in Italia l’affascinante studioso, fatto questo che desta infiniti pettegolezzi nell’Inghilterra del tempo e di cui anche Virginia parlerà nelle sue lettere. Prima della separazione, però, Mary ha avuto da Frank due figlie: Rachel, detta Ray, matematica e pittrice che sposa il crittografo Oliver Strachey (fratello del più celebre scrittore di Bloomsbury, Lytton) e Karin, psicologa e psicanalista che nel 1914 diventa la moglie di Adrian Stephen. Così, Villa I Tatti, che la neonata coppia Berenson-Costelloe acquista nel 1907, si trasforma per gli stranieri a Firenze in una tappa obbligata per ammirare la ricchissima collezione e la straordinaria biblioteca dei Berenson/Costelloe, “a remarkable family”, come dirà Virginia pensando all’anticonformista, bellissima, colta Mary. Pochi gradi di separazione, in fondo, dividono quell’elegante villa toscana dalle vicende di Gordon Square.





Oltre a Firenze, in questo primo viaggio toscano del 1904 Virginia visita anche Prato in una giornata in cui diluvia. La gita non è piacevole e la scrittrice è assediata da ragazzini che chiedono la carità. Adrian decide di rientrare prima degli altri, mentre Thoby, che morirà due anni dopo a causa del tifo contratto in Grecia, si attrezza a dovere e parte in esplorazione per gli Appennini, portando avanti la tradizione paterna. Oltre che letterato e filosofo, l’autoritario, imponente, riflessivo Leslie Stephen è stato infatti Presidente del British Alpine Club e straordinario alpinista, il primo a scalare vette celebri tra cui quella del Monte Disgrazia, punta di oltre 3600 metri nelle Alpi Retiche Occidentali. Anche in questo caso, e anche dopo morto, Leslie rimane per i figli una pietra di paragone, un gigante con cui è sempre stimolante ma anche estremamente doloroso fare i conti. Eppure, quando torneranno a Londra dopo il loro primo viaggio italiano, i giovani Stephen sapranno cambiare per sempre i propri destini: nell’autunno del 1904, dopo un’estate terribile in cui Virginia sarà preda di una crisi grave e intensa, i ragazzi lasceranno per sempre la casa di Hyde Park dove Leslie si è spento per trasferirsi a Gordon Square. Dai lutti della famiglia Stephen, potente come una fenice, sta per nascere il Gruppo di Bloomsbury.






In Toscana con My Travelling Library: Firenze, Fiesole, Siena


In Toscana, Virginia torna quattro anni più tardi, durante un viaggio con Vanessa e Clive nel 1908. Con loro e con la sua fedele valigia piatta: una biblioteca viaggiante (“my travelling library”), zeppa di classici compatti e leggeri. Il viaggio significa per lei anche lettura, in ogni circostanza. In questo caso, porta con sé Thomas Hardy. Un paio di pagine del diario di quei giorni sono dedicate a lui e alla descrizione dell’intreccio e della scrittura di Due sulla torre. Quel libro diventa così parte integrante degli appunti senesi, in un continuo intrecciarsi tra viaggio reale e viaggio letterario. Ovunque, coi libri. Come sarà anche per la sua camera da letto a Monks, anni più tardi.






Sposatisi nel 1907, Vanessa – pittrice – e Clive – critico d’arte brillante ed entusiasta – sono partiti con Virginia alla scoperta dell’Italia centrale, un luogo in cui Virginia si sente trasportata in un dipinto del Duecento. La sua mente memorizza i colori (l’azzurro, il grigio, il blu del paesaggio, i rosa, i bianchi, i neri, i dorati di monumenti e architetture) e i materiali (la pietra, i ceri) e resta ammaliata e perturbata dalla Festa della Vergine nel Duomo di Siena. Visitare la cattedrale in quei giorni significa trovarsi di fronte a un patrimonio di rumori, odori, gestualità: le grida, i canti, gli schiocchi di frusta, il crepitare degli zoccoli. Qui a Siena, come anche a Milano, a Venezia e in Sicilia, Virginia rimane impressionata dai religiosi e dalle funzioni cattoliche. Tutto le pare disordinato e imprevedibile: un rituale mistico e a tratti inintelligibile, decorativo, pieno di reliquiari e simboli misteriosi, ben lontani dalla severità delle militaresche funzioni anglosassoni cui è abituata. 





In particolare, nel Duomo di Siena la colpisce un gruppo di sacerdoti che celebrano il rito. Li osserva dal di dietro, fissandone le spalle e i paramenti in satin dorato. Uno di loro ha un copricapo bianco e Virginia annota nel suo diario che quel cappello pare proprio un petalo di ciclamino (ci pare di sentir parlare Clarissa Dalloway durante la sua passeggiata lungo Bond Street, non trovate?). Per il resto, le giornate toscane trascorrono oziose: una visita a una chiesa o a un monumento la mattina, il riposo al fresco in camera sino all’ora del tè, una passeggiata alla Fortezza medicea sul far del tramonto. Questo è uno dei momenti che Virginia preferisce: descrive le persone che incontra (signore che lavorano a maglia, galantuomini che leggono il giornale) e i paesaggi che scorge (le creste, i vigneti, gli ulivi, la terra selvaggia punteggiata da ville bianche). Al tramonto si siede all’aperto coi compagni, lascia che la calura si attenui e che arrivi pian piano l’ora di cena. Non descrive la sala da pranzo della pensione in cui soggiornano. Rimane però affascinata da un’anziana zitella – con pelle che sembra cuoio e rughe scavate nel volto – di cui racconta nel diario. Immagina si tratti di una donna di un’antica, nobile famiglia di campagna: si reputa esperta d’arte, sostiene di avere imparato il francese a Bath da un paggio della regina Maria Antonietta, non fa che aspettare con ansia i pasti della giornata (reputando il cibo toscano il migliore di Italia), si intrattiene supponente facendo la maglia, certa di aver viaggiato e conosciuto il mondo più di ogni altro. 





Sempre nelle terre senesi, oltre vent’anni dopo, Virginia incontrerà una donna del tutto diversa, le mani sporche di terra, una casa arroccata sulle colline, il desiderio di conoscerla meglio e conversare un po’ con quella famosa scrittrice inglese. Nel suo diario del maggio del 1933 è proprio questa nota che colpisce particolarmente: è dedicata a una giornata in un piccolo paese fuori città di cui Virginia vorrebbe specificare il nome; lascia uno spazio bianco sulla pagina per farlo in seguito (non lo ricorda sul momento), ma quello spazio non verrà mai riempito e a noi resta solo il breve schizzo di questa figura femminile delicata e modesta cui la scrittrice di Bloomsbury stringe la mano. Lo stesso giorno, camminando lungo il fiume, incontra un uomo che le offre quanto ha appena pescato. Lei, in cambio, propone le sue sigarette. 


In Toscana, Virginia torna anche nel 1909. È il 23 aprile quando riparte, sempre con Clive e Vanessa, per Firenze. Rientrerà in Inghilterra da sola il 9 maggio. Durante questo nuovo soggiorno annota sul suo diario che Firenze “sembra un posto molto felice” ma anche un “cestino di uova bianche e brune”. Le piace l’idea che anche la madre più povera possa offrire ai figli la possibilità di giocare tra i glicini e di godere di quella assoluta bellezza sul bordo dell’Arno. Rimane quasi abbagliata dallo splendore fiorentino. Nelle sue parole si intrecciano le fantasie sui palazzi illuminati e le ville con “gli innamorati in giardino” e lo stupore per le valli che danno rifugio agli usignoli intorno a San Miniato al Monte, dove si è recata anche nella sua prima visita fiorentina del 1904, intonando un peana di ringraziamento assieme ad Adrian. Come sempre le capita, in Inghilterra o all’estero, è serena quando può concentrarsi sulle cose semplici, quelle di tutti i giorni: mangiare, passeggiare, chiacchierare, giocare a bocce, fare la spesa, leggere, sfogliare le sue riviste, sorseggiare il caffè.






Bacche in fiore e amicizie toscane, tra Conti, esploratrici, egittologhe e guide borbottanti


Virginia utilizza le lunghe passeggiate toscane per riflettere sulla sua scrittura, che in queste terre risulta più scomoda e difficoltosa e la costringe a uno stile più teso e lapidario che non sente suo. Nella primavera del 1909 continua comunque a conoscere amici nuovi e ritrovare vecchie conoscenze: leggendo le sue lettere ci è sempre più chiaro come per lei, e per tutto il gruppo dei Bloomsberries (le bacche in fiore, come li chiamavano i contemporanei), sia fondante il verso shakespeariano per cui Society is the happiness of life. Liberatisi dagli stringenti canoni vittoriani, i giovani di Bloomsbury confidano con slancio nel valore creativo di una nuova comunità libera e anticonformista, dove l’incontro tra individui si fa cardine di nuovi spunti, intuizioni, conoscenze.      

 

Sul suo diario, Virginia racconta di un pranzo con la Principessa Lucrezia Rasponi, Rezia, che col fratello Nerino e il cugino Guido Pasolini (amici di George Duckworth) gli Stephen avevano ospitato a Manor House, nello Hampshire, nell’agosto del 1898. Ora che sono in Italia, gli Stephen rendono loro visita a Villa Fontallerta, ai piedi del monte di Fiesole, un luogo di fortissima suggestione descritto dallo stesso Boccaccio nel suo Decamerone. 







È così che Virginia conosce i genitori di Rezia, il Conte Giuseppe Rasponi, con cui parla di agricoltura e irrigazione, e la massiccia e risoluta Contessa Angelica, che pare sgattaiolata fuori dalle pagine di un romanzo di Jane Austen. Tra gli altri appuntamenti di quei giorni ci sono il pranzo coi Berenson, di cui abbiamo già raccontato, e il tè con l’anziana Mrs Janet Ross. La Ross è un personaggio energico e intrepido, con gli occhi grigi e vivaci, che incuriosisce particolarmente la scrittrice e che raccoglie intorno a sé una corte di amici e ammiratori. Possiamo immaginarla mentre racconta alla Woolf la sua storia, probabilmente senza prestare troppa attenzione e inanellando, una dopo l’altra, avventure che a una ragazza inglese non possono che apparire straordinarie. Classe 1842, figlia di sir Alexander Duff Gordon e di Lady Lucie Duff-Gordon, Janet è una donna di solida cultura, cresciuta – come Virginia – in una raffinata casa vittoriana in cui sono passati William Thackeray (padre della prima moglie di Leslie Stephen, Minny), Alfred Lord Tennyson e Charles Dickens. Studia lingue e viaggia tra Europa e Africa, dove si trasferisce col marito Henry Ross, banchiere che la porta a vivere ad Alessandria d’Egitto. Corrispondente del Times, naviga sul Nilo fino a Luxor, viaggia in cammello, dorme in tenda, indossa abiti beduini. Infine, a seguito dei problemi economici del marito, decide di rientrare sul continente e si stabilisce a Firenze per affittare una Villa a Castagnolo, dove coltiva orchidee, si dedica alla viticoltura e alla produzione di formaggio e olio d’oliva. 





Nel 1888 acquista poi Villa di Poggio Gherardo, che ristruttura secondo i dettami del gothic revival, decorandone le pareti con preziosi oggetti d’arte, gli stessi che Virginia descrive durante la sua visita e che agilmente Mrs Ross rivende a chi si reca a renderle omaggio. Nella sua casa passano nel corso degli anni George Meredith, Edward Hutton e Mark Twain. E anche la poetessa e scrittrice Alice Meynell che Virginia incontra durante il tè trovandola una donna che “in qualche modo ti rendeva antipatica l’idea delle donne scrittrici” . Sempre a Firenze e sempre invitata per un tè, Virginia conosce anche la stravagante Miss Murray, da identificarsi probabilmente con Margaret Alice Murray, egittologa e scrittrice dedita all’occulto che frastorna Virginia con le sue teorie mistiche e i racconti delle sue sfortune. Di un’altra dama conosciuta a Firenze sappiamo meno: si tratta di Miss Campbell, di origini irlandesi. Ha due figlie, ha scritto una biografia su Padre Damiano e suscita a Virginia una qual certa simpatia.


Alcuni altri vivaci ritratti toscani, sempre femminili, li troviamo nelle pagine di diario del 1933. Durante questo nuovo viaggio, Virginia si spinge all’Abbazia di Sant’Antimo a Montalcino. Fa fatica a rintracciarla, perché i contadini che vivono in zona di rado si allontanano troppo da casa. Quando Virginia raggiunge la meta, le fa da guida nell’edificio la borbottante signora Maria, che le domanda se sia una contessa e le illustra le bellezze del luogo. Le persone e i paesaggi in questi giorni lasciano in lei impressioni intense: gli usignoli, i pioppi, le cascine rossastre, i cipressi, le folate di fiori d’arancio, i vigneti, gli ulivi. Un concerto di storie e immagini, probabilmente più forte di quelle raccolte durante i tè delle cinque, popolano la sua mente e vi lasciano traccia. La balena assorbe tutto e si riserva qualche mese per la digestione di quanto ha fatto suo lungo la via.







Milano, la città che sale


Durante il viaggio con Vanessa e Clive del 1908, Virginia fa tappa anche a Milano, che negli anni precedenti ha visto nascere le prime società di produzione cinematografica, ha accolto l’Esposizione internazionale al Parco Sempione e lo spettacolo di Buffalo Bill all’Arena, ha inaugurato il Castello Sforzesco appena restaurato, la Torre del Filarete e la porta centrale del Duomo.

Il 4 settembre Virginia si trova in una città affollata e rumorosa, una città in movimento, una città che sale, come dirà qualche anno dopo Boccioni. Milano la colpisce per le sue case piatte, dipinte di colori chiari, e le sue piazze verdeggianti. Le pare un luogo uscito da un acquerello dipinto da mano energica: uno spazio più sincero di Brighton e Oxford, sebbene non eccezionale. In città, Virginia girovaga senza pensieri: la trova polverosa e teatrale. E sempre a Milano ritorna l’anno successivo, quando alloggia all’Hotel Manin, che esiste ancor oggi. 




Si tratta di un albergo dalla storia antica, fondato nel 1846 in contrada della Cavalchina (oggi via Manin, appunto), vicino a via Monte Napoleone e poco lontano dal Duomo. Quando Virginia vi soggiorna, la proprietà e la gestione sono nelle mani della famiglia Colombo. Virginia è giunta nel capoluogo meneghino dopo due settimane a Firenze, dove Clive e Vanessa si sono trattenuti. Lo racconta l’8 maggio in una lettera indirizzata a Madge Vaugham, cui spiega che trova gli italiani un popolo incantevole. 



Ricorda anche che a Milano si è intrattenuta con un gruppo di suore “che non smettevano un attimo di bisbigliare tra loro – non so se sulla loro anima o sui vicini”. In questi giorni la troviamo allegra e spensierata. E, se ha ragione Leonard, dobbiamo immaginare che quando si sente così il viso di Virginia sia illuminato di una bellezza intensa: una bellezza diversa da quella costante e rassicurante che sempre caratterizza Vanessa, ma ugualmente luminosa e intensa, probabilmente impressionante. Così nella sua lettera a Madge Vaugham, la Woolf ironizza sul fatto che non riesce a comunicare in italiano (anche se imparerà a leggerlo) e che di lì a breve dovrà cercare di arrivar in stazione e non sbagliare treno. Altrimenti la sua missiva si trasformerà in un drammatico, epico, strappalacrime messaggio di addio. In una manciata di righe trapela lo stesso spirito ironico e pungente che un paio di anni dopo, nel 1910, la spingerà a prendere parte con Adrian alla celebre Beffa della Dreadnought, lo scherzo orchestrato dal poeta irlandese Horace de Vere Cole che organizza una visita alla Royal Navy da parte di alcuni membri della casa reale abissina. In realtà, i dignitari sono cinque amici di Cole, appositamente mascherati per l’occasione. Tra loro, in una foto del tempo, riconosciamo Adrian, il pittore Duncan Grant (che sarà poi il padre naturale dell’amata nipote Angelica Bell) e – naturalmente – la nostra Virginia.







Perugia e il suo pittore


Il 15 ottobre 1908, dopo aver lasciato Siena, Vanessa, Clive e Virginia si recano a Perugia, dove “barattano la semplicità dei pasti familiari (quelli senesi ndr) con tutto il comfort di un Grand Hotel”. Siamo all’Hotel Brufani Palace, lo stesso descritto da Roger Fry. 





Quando guarda fuori dalla finestra, Virginia osserva le strade intrecciate e le teste in movimento, i buchi sui tetti, le tegole sporgenti, un abitino azzurro steso ad asciugare. Poco oltre cominciano la campagna, i filari di ulivi, le colline. Le piace la luce serale (di giorno tutto pare troppo brullo): osserva le nuvole scarlatte e arancioni, il cremisi del cielo e poi quell’azzurro che al tramonto avvolge ogni cosa. La campagna rappresenta uno stimolo imprevisto. Lo annota nel diario, quando si rende conto che nella sua testa sta paragonando quei campi e quei contadini a quelli inglesi, appuntando mentalmente ogni differenza: la terra umbra le pare antichissima e ogni dettaglio riesce a impressionarla più di quanto ci aspetteremmo da una cittadina come lei (il terreno pietroso, i granai di mattoni rosa, le donne sedute a mondare il granoturco). Anche a Perugia, comunque, Virginia si concentra sulle letture appena terminate, in questo caso l’Harry Richmond di George Meredith, e conversa d’arte coi commensali. Perugino e la bellezza silenziosa delle sue opere la portano a riflettere sulla sua scrittura e sul taglio che vuol darle: sulla relazione paesaggio, azione, personaggi e ancora dio, linee e colori. Lei insegue e raggiunge la bellezza attraverso le discordanze, più che attraverso le simmetrie peruginesche. Le pare un processo naturale, un volo della mente. E, mentre lei scrive, Vanessa (come Perugino) dipinge. 





Assisi, un’altra città a forma di Piramide


 “Assisi is another of these pyramid-shaped towns”. Così Virginia descrive nel diario la città di San Francesco, meta di pellegrinaggio sin dalla morte del Santo. Quando vi si reca nel 1908, la trova deserta. Visita la chiesa e le strade, ne ammira le case, le finestre e i balconi. Tutte le persiane sono chiuse e fanno immaginare che all’interno quelle stanze siano immense e vuote. Anche qui ci sono momenti e persone particolari che memorizza: una signora accoccolata contro un muro, un asino attaccato a un carro. I piccoli dettagli sono quelli che, come sempre, si innestano di più sulla sua instancabile immaginazione. 


Rapallo, Pisa e l’Arno color caffè


Per il viaggio di nozze del 1912 (che l’ha vista tornare nell’amata e odiata Venezia) assieme a Leonard Virginia visita anche Pisa. Soggiorna sul Lungarno, all’Hotel Nettuno, uno storico, elegante albergo con oltre cento camere, numerosi saloni di rappresentanza, sale lettura e musica, giardino d’inverno, sala concerto. L’hotel, noto agli amanti della letteratura perché luogo di passaggio anche del pirandelliano Mattia Pascal, prende il nome da un’antica statua romana qui rinvenuta e le cartoline del tempo ce ne mostrano l’ingresso, punteggiato di macchine e curiosi. Una fotografia del 1925 ritrae re Giorgio di Inghilterra che con la moglie Mary e la sorella Vittoria lascia l’hotel e riparte dopo il suo soggiorno in città. 





Dal Nettuno Virginia scrive una lettera all’amico Saxon Sydney-Turner il 17 settembre del 1912 e sempre qui si trova nel maggio del 1933, quando nel suo diario annota della nuova visita pisana, dei tantissimi francesi che affollano l’hotel, della spuma dell’Arno color caffè, degli eleganti loggiati, delle persone che brulicano per le strade, della prodigiosa torre pendente. Il viaggio on the road con Leonard del 1933 è iniziato venerdì 5 maggio, quando i lupi sono partiti con la loro automobile nuova – la stessa che anche Virginia guida molto bene seppur in modo poco ortodosso – prendendo il traghetto da Newheaven a Dieppe. Hanno quindi attraversato la Francia, arrivando sulla costa ligure. Fermatasi a Rapallo, Virginia racconta sul diario delle tappe costiere: lei e Leonard non le amano particolarmente, né amano le ville e i casinò pieni di personaggi noiosi e arcigni con abiti da sera e volti incipriati. Il panorama però li ammalia, così come le donne che leggono libri ai bambini e la rilassatezza indolente di questi luoghi. 



Sicilia: Palermo, Segesta e gli agnelli di zucchero


Il 9 aprile del 1927, Virginia Woolf scrive una lettera a Vanessa dall’Hotel de France di Palermo, il più lussuoso della città, lo stesso dove soggiornano durante i loro viaggi le famiglie reali oltre a personalità come Francesco Crispi e Edmondo De Amicis. Lo stesso in cui pernotta persino Sigmund Freud, che Virginia incontrerà a Londra nel 1939 descrivendolo come un uomo molto anziano, quasi rattrappito, eppure animato da un fuoco antico di cui rimane evidente un energico guizzo (in quella occasione, il padre della psicanalisi le regalerà un fiore).


Pochi mesi prima dell’arrivo di Virginia a Palermo, sul Corriere della Sera, è apparso il primo articolo italiano dedicato a lei. Lo ha scritto Carlo Linati, scrittore e traduttore che l’anno prima ha menzionato la scrittrice in un pezzo dedicato ai grandi romanzi inglesi redatto per l’edizione pomeridiana del Corriere. 





Lei e Leonard sono partiti da Londra il 30 marzo, sono passati in treno per Parigi e quindi sono stati a Cassis, nel sud della Francia, dove si sono trattenuti una settimana. I Woolf sono poi arrivati a Palermo in treno, partendo da Roma e il viaggio è stato piuttosto complicato dal momento che Virginia ha dovuto tranquillizzare la signora svedese con cui ha diviso la cabina, massimamente impaurita dalla mancanza di serratura nella porta del loro scompartimento. Mentre scrive dalla stanza del suo hotel, rammaricata di tutto il tabacco sprecato perché durante il viaggio i suoi pacchetti di sigarette si sono sbriciolati, fuori dalla finestra Virginia avverte il vociare delle persone. Avrebbe voglia di uscire e andare al cinema. Sono i giorni che precedono la Pasqua e le ritualità cattoliche le appaiono una forma d’arte o almeno il tentativo di avvicinarvisi quanto più possibile. Ci sono ragazze con velo bianco che la commuovono, ragazzini che brandiscono palme legate con un nastro rosso e, dappertutto, agnelli da zucchero che attendono di essere assaporati dai più piccini. In questi giorni visita i mosaici di Monreale e ne apprezza uno in particolare, dedicato alla caccia. A Segesta i Woolf si trovano di fronte ai templi dorici. 






La Sicilia classica che tanto hanno studiato prende ora forma, proprio come dimostrano i numerosi volumi sul tema della loro ricchissima biblioteca: A Tour through Sicily and Malta di Patrick Brydone, la Blu Guide of Sicily di Findlay Muirhead, la guida di Bertarelli e un prezioso manuale realizzato dall'Hugo' s Language Institute, dal titolo How to get all you want when travelling in Italy (or Sicily): A really practical phrasebBook, indispensible to tourists, with the imitated pronunciation of every word.


Siracusa o del “non sapere il greco”


Qualche giorno dopo, i “lupi” visitano Siracusa. Arrivati alla stazione la notte del 13 aprile del 1927, incontrano l’amico scrittore Osbert Sitwell, fratello di Ethel. Lui soggiorna in un Grand Hotel fuori città, mentre i Woolf si fermano all’Hotel de Rome, una modesta locanda dove nessuno parla inglese, ma il cibo è delizioso: in particolare Virginia va matta per una frittata speciale che il proprietario prepara appositamente per lei. Tra gli ospiti ci sono vedove e ufficiali italiani, con cui i Woolf si intrattengono la sera a bere un caffè e conversare. Mancano i tedeschi, che Virginia mal sopporta. Nel cortile ad attirare l’attenzione della scrittrice sono una cesta con due gatti, un cameriere che vernicia un tavolo e una vecchia che sistema materassi. Scene semplici che la portano a pensare che si sta rapidamente innamorando dell'Italia. E poi ci sono il cibo ottimo, il vino inebriante, la visita notturna della città (esplorata un po’ sbronzi alla luce della luna), il desiderio di viaggiare per tutta la vita, le ragazze italiane belle come disegni di Millais, i cavalli coi pennacchi, la vita osservata dalla terrazza dell’hotel, le creature fatate che incontra in Sicilia e di cui vuole raccontare ad Angelica, l’incanto di una terra che ha qualcosa di irreale e potentissimo. 






E c’è il teatro greco con le sue rovine. Nel teatro di Siracusa, lei e Leonard assistono alle prove delle rappresentazioni di Medea e Alcesti, in programma per la settimana successiva in occasione dell’arrivo della famiglia reale. Euripide e il conflitto tra Eros e Thanatos la riportano alla sua passione per il mondo greco, cui la ha iniziata il fratello Thoby. Bello, alto e luminoso come un dio greco. Nudo, racconta Virginia di Thoby, potrebbe senz’altro essere esposto al Louvre come un eroe classico. È lui che per primo le ha narrato di Achille, Ettore, Omero e che la ha spinta a studiare da autodidatta la lingua e la letteratura elleniche, tanto da arrivare a pubblicare nel 1925 il volume Del non sapere il greco. La stessa emozione che prova a teatro coglie Virginia di fronte alla Fonte Aretusa, specchio d'acqua sull'isola di Ortigia, nella parte più antica della città siciliana. 

In Sicilia, Virginia ritorna alle origini e le riscopre più vivificanti, preziose e potenti di quanto avrebbe potuto immaginare anni prima.





I mercati di Roma, le rovine di Pompei, le navi di Nemi


Nell’aprile del 1927, pochi giorni dopo il soggiorno siciliano, Virginia è all’Hotel Hassler di Piazza Trinita dei Monti, a Roma. Un hotel discreto dove Leonard è costretto a combattere con le mosche. Per la scrittrice, Roma è perfezione: liscia, soave, fluente, classica, con greggi di pecore, immensi uliveti, cipressi, prati, alberi di giuda, il mare da una parte, le colline dall'altra. Il luogo dove tornare a morire. 




Addirittura, il luogo dove la Woolf suggerisce alla sorella Vanessa di creare una colonia di anziani: i fondatori potrebbero essere proprio loro due, assieme a Roger Fry e Lytton Strachey. Arrivata a Roma, visita il Colosseo e mangia un generoso piatto di maccheroni. Le giornate paiono perfette, gli alberi sono in fiore, i cespugli di azalee punteggiano i sentieri, San Pietro si staglia elegante in lontananza, le persone si godono i panorami sedute sui parapetti. Virginia ondeggia come un pesce: la città riesce a stregarla e a farle rinunciare al proposito di concentrarsi sulla lettura di Proust, prediligendo invece le visioni di Raffaello e Michelangelo. Visita anche Pompei e rimane sconvolta da quell’atmosfera surreale che avvolge la città sepolta dall’eruzione. Si reca poi a Nemi, dove pranza in un ristorante sopra il lago da cui, tra il 1928 e il 1932, verranno ripescate le due celebri navi romane affondate ai tempi dell’imperatore Caligola. La decisione di recuperare i relitti sommersi è proprio di quei giorni ed è annunciata dallo stesso Benito Mussolini. Ma dalle vicende politiche italiane, almeno durante il viaggio, Virginia si tiene lontana. Come dimostrano i suoi scritti, conosce perfettamente la gravità della minaccia costituita dalle camicie nere e dal fascismo, ma ora si concentra sull’orizzonte, i colori cangianti e le creature della campagna: verde ulivo, verde smeraldo punteggiato di ciclamini, cavalli, capre. E intanto riflette anche su se stessa e sulla maternità, verso cui è diffidente quanto Vanessa lo è verso il matrimonio, perché le appare il rapporto più limitante e distruttivo che possa legare due esseri umani. Son giorni in cui lei e la sorella si scrivono molto. Questa volta hanno stretto un patto: Virginia racconterà a Vanessa ogni dettaglio del suo viaggio e Vanessa realizzerà per lei un quadro.







C’è anche un elemento curioso che scopriamo negli scritti della Woolf: il giorno del mercato degli abiti usati, che Virginia vorrebbe assolutamente visitare, coincide con la data della ripartenza e la scrittrice se ne rammarica particolarmente, fantasticando di quando vivrà a Roma e potrà bazzicarvi senza problemi. Con Leonard, gira però per antiquari per le strade di Castel Angelo e San Pietro. Non trova quello che cerca. Ma si ripromette così di tornare anche qui: la prossima volta senz’altro farà incetta di porcellane. 


Ritorno a Venezia: l’Orient Express, Roger Fry e le incursioni tra Brindisi e Trieste 


Nel 1932 assieme a Leonard Virginia torna di nuovo a Venezia. Questa volta i due non sono soli e viaggiano assieme a Roger Fry e a sua sorella Margery, tra le prime donne al mondo a diventare magistrato. Nelle sue prime lettere Virginia soprannomina Margery “Yak” e la descrive come una persona ottusa e piena di sé. Solo col tempo diventeranno più intime al punto che Margery incaricherà Virginia di scrivere la biografia di Roger alla morte di lui. Fry, in eterna tensione verso la ricerca del bene, del vero e dell’uguaglianza, è uno degli amici più cari della Woolf. Protagonista degli Apostoli di Cambridge prima e del Gruppo di Bloomsbury poi, suo iniziatore all’arte dei grandi maestri dell’arte moderna (primo tra tutti Cézanne con le sue mele) Fry ha avuto una vita complessa, segnata dalla malattia mentale della moglie Helen Coombe. Ma è anche il critico che è riuscito a scardinare i preconcetti estetici vittoriani cambiando il gusto di un’epoca grazie a due intuizioni geniali e per molti versi sconvolgenti: la mostra “Manet e il Post-Impressionismo”, organizzata nel 1910 alle Grafton Galleries di Londra, e l’Omega Workshop, il laboratorio di design con sede in Fitzroy Square fondato pochi anni dopo, i cui membri includono Vanessa Bell (cui si legherà sentimentalmente) e Duncan Grant. Dunque, il 15 aprile del 1932 Roger, Margery, Leonard e Virginia partono in treno da Victoria Station. A Dover si imbarcano sul traghetto per Calais e da lì procedono per Parigi dove li aspetta l’Orient Express, in partenza alle 20.40 dalla Gare de Lyon e diretto a Venezia, dove arriva alle 16 del giorno seguente, una decina di minuti di ritardo rispetto al previsto. 






Sono settimane in cui i Woolf e i Fry si conoscono meglio: giocano a scacchi, conversano, studiano greco e si lasciano avvolgere dalle atmosfere della laguna soggiornando sul Canal Grande, a Casa Petrarca, luogo che Roger Fry, che in Italia è stato moltissime volte, già conosce e in cui tornerà anche anni dopo. Le giornate scorrono divertenti e movimentate e i quattro fanno un giro in gondola, con Roger che impartisce indicazioni ai gondolieri direttamente in italiano, in un anno in cui i turisti sembrano meno numerosi del solito. Si recano a San Giorgio per ammirarne l’abside, osservano i palazzi e la luce pallida e viva, ricordano le teorie di Ruskin, cenano “al Cavallo” (ma forse con questo nome Virginia vuole indicare il ristorante dell’Hotel Cavalletto) e assistono a una pièce di Franz Cammerlohr al Teatro Goldoni, dove le perline verdi che decorano i tendaggi delle Gallerie colpiscono la scrittrice in modo particolare. 





La mattina dopo, Virginia e Roger (che di Venezia conosce ogni angolo e anche ogni bar e ristorante perché adora la cucina italiana) visitano la Chiesa dei Gesuati, ammirano gli affreschi di Tiepolo e assistono a una funzione affollata e carica di ori che ha qualcosa di magico, di mistico, di imprevisto. È domenica notte quando si imbarcano sul piroscafo Tevere e abbandonano le coste italiane in direzione Atene. I Woolf viaggiano in prima classe, i Fry in seconda, dove Leonard e Virginia si recano per stare assieme agli amici. A bordo è allestito un cinema riservato alla prima classe con proiezioni cui partecipa anche il primo ministro greco Eleutherios Venizelos. Impiegato inizialmente per il servizio passeggeri sulla linea Trieste-Venezia-Brindisi-Suez-Aden-Bombay, proprio a partire da questo 1932 in cui traghetta i Woolf verso la Grecia, il Tevere percorre la rotta Trieste-Venezia-Brindisi-Pireo-Costantinopoli. È poco prima di arrivare a Brindisi che Roger Fry scorge dal ponte una cupola che lo ammalia. Così, durante la tappa pugliese, il gruppo sbarca per un breve giro in macchina, alla ricerca dell’edificio. Probabilmente si tratta della Cattedrale, ma i quattro non riescono a trovarla. Trovano invece la stazione ferroviaria e un’altra chiesa, che risulta però chiusa. E risalgono sul Tevere, certamente un po’ delusi, ripartendo in direzione del Pireo.





Dopo il tour greco, i Woolf torneranno a casa riprendendo nuovamente l’Orient Express, lo stesso che due anni dopo Agatha Christie trasformerà in indimenticabile teatro di scena di uno dei suoi romanzi più famosi. Questa parentesi ci permette di fare una piccola digressione. Benché non sappiamo se Virginia e Agatha si conoscessero personalmente, è certo che già nel 1930 Sir Harold Nicolson (frequentatore degli stessi circoli della scrittrice di Torquay e marito di Vita Sackville-West, che Virginia ha conosciuto nel 1922 diventandone amica e amore incomparabile) aveva recensito sul Daily Express The Mysterious Mr. Quin, rimanendo piacevolmente stupito dalla scrittura dell’autrice. Sintomo questo di un qual certo legame tra le due diversissime scrittrici. Dunque, proprio sul leggendario Orient Express, probabilmente incontrando personaggi non molto diversi dalla Contessa Dragomiroff e dal Colonnello Arbuthnot, i Woolf, si avviano a tornare a casa, non mancando di fare un’ultima breve tappa a Trieste. È l’11 maggio 1932: i Woolf scendono dal treno per una veloce passeggiata, acquistano il Times, scrivono una cartolina ai Fry. 

Monk’s House li attende.


Lerici, San Terenzo, il Golfo dei Poeti: come si dice è pieno di mare?








È da Lerici, poco lontano da La Spezia, che Virginia nel maggio 1933 scrive una lettera alla scrittrice, compositrice e attivista Ethel Smyth. Giunta in paese dopo la tappa pisana, riflette e prende appunti vicino alla finestra aperta, sul balcone della sua camera, lungo le rive del Golfo dei Poeti. “Come si dice è pieno di mare?”, si chiede ammirando questi luoghi. 


Proviamo a fermarci sulla soglia della sua stanza e ad immaginare assieme a lei cosa sia stato a inizio Ottocento questo luogo “caldo e blu” al confine tra Liguria e Toscana, terre che Virginia tanto ama e che gli scrittori inglesi hanno preso d’assalto sin dal secolo precedente. Pensiamo proprio a questi scrittori, come fa Virginia quando arriva qui: Mary e Percy Shelley che nel 1818 lasciano l’Inghilterra per l’Italia e che pochi anni dopo si stabiliscono a Villa Bianca, a San Terenzo. Poi Lord Byron che giunge in visita, le amanti e gli amanti, il bagno nudi – la casa è affacciata sul mare – i pagliericci su cui dormire, l’anticonformismo, gli arredi prestati, la vita ribelle, i pescatori locali che li guardano come fossero matti. Mary Shelley al mattino si affaccia al balcone e osserva le onde, le stesse che hanno ispirato Virginia per The Waves (le stesse che la scrittrice ricorda nella sua lettera a Ethel). 






Poi, un giorno di luglio del 1822, il poeta Percy Shelley non fa ritorno e questa volta per la moglie non c’è balcone da cui poterlo chiamare: l’acqua lo ha inghiottito e restituirà il corpo solo qualche giorno dopo, sulla spiaggia di Viareggio. Gli amici e gli ammiratori lo celebreranno con una pira accesa da Byron sulla spiaggia, tra vino, oli e incensi, quasi si tratti di un novello Patroclo, un eroe omerico restituito dalle onde alla sua terra di adozione. 


Viene da chiedersi come mai tanti poeti inglesi siano approdati proprio qui dopo il loro lungo vagare. Forse per la pace, il canto delle cicale, la quiete ritrovata dopo l’aspro paesaggio di casa, i mostri, le tentate risurrezioni? Forse anche loro, come Virginia, sono riusciti in queste terre a placare per un po’ di ore i propri fantasmi?





Parma e Piacenza o del non trovare le mappe stradali


Risalendo verso nord nel maggio del 1933, i Woolf partono da Lerici, passano per la petrosa calda e rumorosa Parma (dove non trovano negozi che abbiamo mappe stradali in vendita) e giungono infine a Piacenza, da cui Virginia scrive nel suo diario verso le nove di sera del 19 maggio. Il viaggio è durato tutto il giorno e ha attraversato gli Appennini. L’albergo in cui si trovano, la Croce bianca, è scomodissimo e freddo, squallido e senza comfort: una locanda in cui mancano persino le sedie. Così, mentre su una seggiola dura Leonard scrive istruzioni per la Hogarth Press, la loro casa editrice, Virginia annota i suoi appunti seduta sul letto, prima di iniziare a leggere Goldoni. Ha le scarpe impolverate e l’indomani ripartiranno in tutta fretta. Dalle sue parole si evince che è in un momento di stanchezza che prelude il rientro in Francia. Ancora non lo sa, ma anche la notte seguente la aspetta un’altra locanda di second’ordine, quella dove i lupi si fermeranno per la notte a Drauguignan.


Maggio 1935, l’ultimo viaggio in Italia: Verona, Firenze, Perugia, il Lago Trasimeno, Roma, Civitavecchia


Il primo maggio del 1935, a bordo della loro Lanchester 18 con una capote Tickford che si può aprire e chiudere completamente, Leonard e Virginia partono per un nuovo viaggio attraverso Olanda, Germania, Austria, Italia, Francia. Con loro c’è la scimmietta Mitz. È stato Victor Rothschild prima ad affidare e poi a far dono a Leonard di quel curioso animale: Mitz adora starsene appollaiato sulle spalle del Signor Woolf (di lui è gelosissimo: nemmeno a Virginia è concesso baciarlo in sua presenza) e accompagna la coppia nel suo viaggio del ’35, diventandone nume tutelare nel passaggio in Germania. Il Ministero degli Esteri inglese ha infatti sconsigliato a Leonard, ebreo, di attraversare la Germania nazista. I Woolf, però, partono ugualmente, con Mitz e con una lettera salvacondotto del principe Bismarck. Ma è appunto la piccola Mitz a fare la differenza, perché distrae i tedeschi da controlli troppo attenti che potrebbero creare dei problemi ai “lupi” dal momento che, come scrive Leonard nella sua autobiografia: “Era ovvio anche al soldato più antisemita che chi aveva sulla spalla un animaletto così carino non poteva essere ebreo”.




Superato il Brennero, il viaggio prosegue e in Italia i Woolf visitano Verona, Moderna, Siena, Firenze, Bologna, Perugia, il Lago Trasimeno. Si fermano quindi a Roma, dove Vanessa, Angelica e Quentin hanno affittato uno studio per sei mesi, e passano per Civitavecchia, per rientrare in Gran Bretagna via Francia dopo una visita alla cattedrale di Chartres. Il 20 maggio Virginia annota nel suo diario lo stupore per la luce intensa di San Pietro e per la luce del tramonto che si riversa su di loro. È nella capitale da qualche giorno e sta soggiornando all’elegantissimo Albergo d’Inghilterra dove Vanessa ha fatto una prenotazione per lei e Leonard. Il nipote Quentin, acquistando un giornale italiano, viene a sapere della morte di Lawrence: Virginia annota frettolosamente la notizia ma senz’altro ne resta molto colpita. I Woolf visitano anche Verona, dove Virginia sorseggia del buon vino e ripensa ai suoi viaggi italiani. In quei giorni legge Turgenev e i suoi appunti si fanno più frammentari. A Firenze la conquista il profumo del caffè messo ad arrostire. Per questa bevanda scura lei e Leonard hanno una vera predilezione. Lo sappiamo da Louie Mayer, la cuoca di Monks, che nelle sue memorie racconta di come non le fosse assolutamente permesso occuparsene: quel compito spettava a Leonard, che ogni mattina alle otto si affacciava alla cucina di Monks House per preparare personalmente il caffè da portare a Virginia. Ci sono poi gli arcobaleni, i temporali, la bellezza di una chiesa ad Arezzo, il fascino del lago Trasimeno. Il viaggio prosegue fino a Perugia. I Woolf pernottano al Brufani, dove Virginia è stata nel 1908 e che trova identico ad allora, anche per le donne bruciate dal sole e per quelle che fanno pettegolezzi sui visitatori: lei e Leonard si salvano dalla loro lingua pungente solo per l’eleganza tutta britannica delle loro valigie. 


Rientrati nella capitale, la Woolf prende un tè in una caffetteria mentre Angelica e Vanessa dipingono. Questi ultimi frame italiani si delineano come in film, anche nella gita a Civitavecchia e nella lettura di quei giorni: gli Indifferenti, il romanzo di esordio di Alberto Moravia.




È però qualche giorno prima a Perugia che Virginia annota un episodio minimo ma forse particolarmente importante. Mentre compra dei panini in una locanda, osserva le scene rappresentate su un camino intarsiato e si ferma per un istante. Un pensiero le attraversa la mente: “Found a sculptured fireplace, all patriarchal – servants & masters. Cauldron on the fire. Probably not much change since 16th century: the people preserve legends. Men & women scything. A nightingale singing where we sat. Little frogs jumping into the stream”.


Non è solo per le architetture e le arti che vi sono conservate che in Italia poco è cambiato rispetto al XVI secolo. Il fatto che essere qui sia quasi un viaggio nel tempo è determinato dalle persone che continuano a tenere in vita le stesse leggende, continuano a connettersi col proprio passato rendendo vive e reali le azioni e le emozioni dei propri antenati: uomini e donne che falciano, un usignolo che canta, piccole rane che saltano nel torrente. 


“Non è dunque possibile, mi sono chiesta spesso, che le cose vissute con grande intensità posseggano una vita indipendente dalla nostra mente; continuino anzi tutt’ora a esistere? E se è così, non sarà possibile in futuro inventare una macchina per intercettarle? (…) Invece di ricordare qui una scena, lì un suono, basterà inserire una spina nella parete; e ascoltare il passato. Le emozioni intense non possono non lasciare traccia; si tratta solo di scoprire come ricollegarsi di nuovo con esse, e potremo rivivere per intero la nostra vita dall’inizio”.


Quasi che, in Italia, i Momenti d’Essere possano spingersi oltre e diventare un’esperienza collettiva oltre che individuale. Perché in fondo, sempre e in ogni caso, Society is the happiness of life. Nel passato, nel presente, nel futuro. 





Breve cronologia dei viaggi in Italia di Virginia


1904        

A Pasqua Virginia intraprende il suo primo viaggio in Italia con i fratelli. Visita Venezia, Firenze, Prato


1908

A settembre parte per l’Italia con Vanessa e Clive Bell. Dopo il passaggio a Milano, visita Siena, Perugia e Assisi


1909

Il 23 aprile parte coi Bell per Firenze. Rientrerà da sola in Inghilterra in maggio


1912

Visita Venezia e Pisa con Leonard per la luna di miele


1927

Visita Palermo, Segesta, Siracusa, Roma


1932   

Assieme a Leonard a Venezia con Roger e Margery Fry. Breve visita a Brindisi. Tornando dalla Grecia, Virginia e Leonard visitano Trieste


1933

In viaggio con Leonard visita Rapallo, Pisa, Golfo dei Poeti, Siena, Parma, Piacenza


1935       

Parte con Leonard e la scimmietta Mitz per un viaggio tra Olanda, Germania, Austria, Italia, Francia. Visitano Verona, Bologna, Firenze, Perugia, il Lago Trasimeno. Si fermano a Roma, dove Vanessa, Angelica e Quentin hanno preso uno studio. Visitano Civitavecchia prima di rientrare in UK via Francia, visitando Chartres.

*Un estratto di questo articolo è stato pubblicato sul n. 4/2021 di Bloomsburiana, il Bollettino annuale della Italian Virginia Woolf Society