martedì 30 giugno 2015

Come in una quadro di Dante Gabriele Rossetti: la storia matta e disperatissima di Emilia, la ragazza dai capelli color del fuoco

Alta, magra, una chioma rosso intenso e occhi chiari. Forse anche qualche lentiggine sul naso. La mia trisnonna Emilia Rogorini cattura gli sguardi di quelli che le stanno attorno. Suo cugino Pietro, nelle sue memorie, la ricorda così ed è l'unica persona per la quale spenda una descrizione fisica tanto dettagliata, quasi che fosse un quadro di Dante Gabriele Rossetti. Ha avuto una vita matta e disperatissima la nostra eroina e la sua storia mi rimbalza nella testa mentre mangio, quando sono in metropolitana, quando studio, quando lavoro e anche un attimo prima di addormentarmi. Anche perché fino a sei mesi fa conoscevo a malapena la corretta grafia del suo cognome, mentre ora mi si dischiude davanti agli occhi un pezzetto della donna che è stata.

Emilia Teresa Maddalena nasce la sera del 7 febbraio del 1854 al n. 5 di Contrada Fustagnari, a pochi passi dal Duomo di Milano. Oggi quella via non esiste più, sostituita da Piazzale Cordusio, ma alcune fotografie del tempo la ritraggono come una fucina di negozi, brulicante di carrozze, merci e cavalli da soma. Proprio lì dove ora sorge il Palazzo delle Poste, si trova al tempo l'antica Chiesa di Santa Maria Segreta dove la bimba viene battezzata. L'infanzia Emilia la trascorre qui, nel cuore della mia Milano -a due passi dalla libreria dove ho lavorato mentre facevo l'Università- al primo piano di una palazzina in cui vivono possidenti e professionisti cittadini. Suo papà Luigi (come suo nonno e come il suo bisnonno) ha potuto studiare e forse mastica anche un pochino di latino.

Viene da una famiglia benestante e suo padre Francesco, il nonno della nostra Emilia, è un uomo decisamente fuori dal comune. Ha ereditato una ricca attività di famiglia a Castano Primo, un "bottegone" in cui si acquistano salumi, tessuti e ferramenta. Ma non gli bastava. Me lo immagino nonno Francesco quando racconta ai nipoti la mitica storia della sua impresa: "Io bambini, volevo portare qui la seta! Volevo lavorare i bachi da seta che arrivavano dal lontano Oriente. Avevo deciso così e nulla mi avrebbe fermato". Mentre lui racconta, tra i bimbi che lo guardano rispettosi e incantati c'è anche la piccola Emilia, che strabuzza gli occhi come quando vede il nonno sfrecciare per le vie di Castano sul suo gigantesco biroccio, trainato da un maestoso destriero friulano acquistato a sostituzione del modesto somaro di famiglia. A volte le imprese del nonno possono persino fare paura ed è in quei momenti che Emilia stringe forte la mano della sorella Adele. Adele ha sette anni più di lei e ha anche conosciuto l'altra Emilia, la bimba morta a nemmeno quattro anni da cui la nostra Emilia eredita il nome. Come Vincent van Gogh riceve il nome del fratellino sfortunato che lo ha preceduto, così accade alla nostra eroina. E, se ben la conosco, questo fatto peserà tanto sulla donna che diventerà. Di un anno più piccolo è invece il fratello Francesco che però, in quanto maschio, ha non pochi privilegi. I tre fratellini comunque crescono insieme a Milano. Emilia è per certi versi la più silenziosa e riflessiva. Mi piace pensarla mentre spia il cugino Carlo, alle prese coi suoi studi per l'Accademia di Brera, e mentre osserva le insegne dei Magazzini Babilonia e delle pelliccerie che si affacciano sul Duomo.

La  mamma, Clementina, è una donna sicura di sé, con una buona dote e molta voglia di lavorare. Per questo aiuta papà Luigi nel negozio di materassi che si trova proprio sotto casa, a due numeri di distanza (anzi meno) dal negozio di zio Antonio, che come tutti i Rogorini si occupa di tessuti e oggetti per la casa. A volere i due negozi tanto vicini è stato nonno Francesco, ma l'idea non deve essere stata troppo brillante perché tra i due fratelli, Luigi e Antonio, nascono ben presto dissapori e battibecchi. Intanto gli otto ragazzi Rogorini (3 figli di Luigi e 5 figli di Antonio) si fanno grandi e dobbiamo presumere che nelle loro case si parli di pittura, si ascolti musica, si discuta di opera e teatro. Magari è proprio durante un'uscita per un concerto alla Scala che la nostra Adele conosce Ignazio Viganotti, baritono del tempo che fa nascere in lei un amore incontrollabile. La famiglia ovviamente non approva. Luigi, per lo meno. Un conto è ascoltare l'opera, un altro è sposare un teatrante. Ma Adele ha preso la sua decisione: cocciuta come nonno Francesco sposa il bell'Ignazio, magro, con una corta barba e lo sguardo intenso, e comincia con lui a girare l'Italia per tournée. Me la immagino allegra e felice Adele, nella sua vita vagabonda. Il cugino Pietro ci racconta di lei come di una ragazza meno slanciata e più rotonda di Emilia, probabilmente anche più sorridente.



Così Adele parte e comincia una vita nuova che le regalerà anche un figlio, Cesare, a cui darà come secondo nome quello di Clemente, un atto che mi fa pensare che mamma Clementina a quell'unione non si sia opposta e che abbia, forse, guardato con occhio amorevole le scelte delle figlie. Con la partenza di Adele, però, Emilia rimane sola e si fa ancora più irrequieta.
Cerca di lavorare col fratello Francesco, che ha cominciato ad occuparsi del negozio paterno. Ma Francesco, quando può, la tiene in disparte. Eppure proprio quel negozio da cui vorrebbe tenerla lontana, ne segna il destino. E' infatti in bottega che Emilia, bellissima, magnetica, altissima per l'epoca (e questo da lei non l'ho ereditato), conosce Carlo. Il ragazzo ha nove anni meno di lei, che non sono pochi, è un buon lavoratore ma viene da una famiglia piuttosto umile, originaria di Vaprio d'Adda. Epperò qualcosa in lui la affascina.

Il  Manzotti, così si chiama Carlo, si trova di fronte una donna ricca e straordinariamente bella. Mi pare di vederlo quando la osserva di nascosto mentre lei entra in bottega, elegante, luminosa eppure con un'ombra sugli occhi. La situazione è rischiosa ma la posta in gioco è alta e Carlo ama le sfide. Appena morto papà, Emilia non ha dubbi. Sposa il Manzotti, ne acquisisce il cognome e cambia la sua vita. Anche perché a quel punto il fratello la allontana quasi del tutto dall'attività di famiglia. Da questo momento la storia si fa più complessa e oscura. Lo spirito guerriero che ha dentro inizia a ribellarsi. Emilia ha quattro figli maschi (tra cui il mio bisnonno Giuseppe), ma qualcosa non funziona. Il suo matrimonio si incrina piano piano e con esso la sua sanità mentale. Le sue stravaganze si acuiscono, forse anche per una vita da moglie e madre che non sente totalmente sua. Credo che in quei mesi, in quegli anni, Emilia ripensi al nonno. A come si sia rifiutato di combattere per Napoleone e abbia mandato un altro al suo posto. Si siede al suo scrittoio Emilia e, mentre compone una lettera per la sorella Adele, pensa anche al fratello del nonno (che si è rifugiato a Istanbul pur di scampare al massacro dell'impresa di Russia). Pensa a zia Giuseppina, suora ribelle e Madre Superiora dell'Istituto delle Marcelline che è andata a Roma per sostenere la sua riforma monacale ed è stata ricevuta dal Papa in persona. Pensa ad Adele, che può vedere posti che forse le saranno preclusi. Pensa al fratello che ha potuto studiare in Svizzera e ha ereditato, pur essendo l'ultimogenito, un negozio che sarebbe spettato a lei e ad Adele: Francesco che ama le belle donne e non si sposerà mai, Francesco che saprà avere un ricco rimborso dal Comune quando Contrada de' Fustagnari verrà abbattuta per far posto al nuovo assetto di Cordusio, Francesco che acquisterà una villa a Torno e farà una vita da libertino senza che nessuno possa giudicarlo.

Si sente come chiusa in un baco da seta Emilia e non riesce a svincolarsi, non riesce a capire perché non a tutti sia dato di diventare farfalla. Presumo che in quei giorni il Manzotti non la capisca. Come potrebbe del resto? Per ora non so esattamente cosa capiti al loro matrimonio. Se ci sia un divorzio formale o se a un certo punto Emilia decida semplicemente di andarsene. Lascia tutto, come Adele, ma lo fa in solitudine. E lo fa senza nulla. Senza denaro, senza prospettive, in totale povertà. Dorme sui gradini delle chiese e per le strade. Rifiuta di essere accolta da chi, come il nipote Cesare, vuole darle rifugio. Nelle sue memorie il cugino Pietro racconta di una bellezza sfiorita, di una donna impazzita, demente, incontrollabile. Da lei, dice Pietro, scappano tutti. Anche il marito e i figli che in effetti nel 1906 troviamo a Nizza dove Carlo vive con un'altra donna e si fa chiamare Charles. Però, forse, semplicemente Emilia vuole essere libera ed è pronta a pagare qualsiasi prezzo per questa libertà. Quando Cesare la farà ricoverare in un istituto, Emilia scapperà. Sarà l'ultimo gesto di indipendenza assoluta di questa donna incastrata in una vita che aveva scelto solo per metà.

Mi mancano ancora tanti tasselli della sua storia. Eppure qualcosa è riemerso dal buio e adesso, passando là dove un tempo c'era Contrada Fustagnari, penso che potrebbe capitarmi di incontrarla. Sarò con gli occhi all'insù. Alla ricerca della sua chioma rossa e del suo profumo di acqua di colonia.

giovedì 11 giugno 2015

Marcello, Jane Austen e una stanza tutta per sè

Poco più di un mesetto fa il Museo Vincenzo Vela di Ligornetto ha riaperto al pubblico dopo una pausa dedicata al radicale miglioramento delle sue infrastrutture. Con l’occasione è stata inaugurata anche una mostra che mi porterò dietro per parecchio tempo, non solo perché ci sto lavorando sopra cercando di raccontarne la protagonista agli amici al di qua del confine, ma anche perché tocca molte delle mie corde più intime. L’eroina della nostra storia è «Marcello», ovvero Adèle d'Affry (1836-1879), duchessa di Castiglione Colonna.  Una donna dunque, e una scultrice, come la mia amata Genni Wiegmann Mucchi.

Quella di Marcello è stata una vita breve, al centro dell’élite artistica del tempo e immersa tra personalità come quelle di Courbet, Delacroix, Merimée, Napoleone III, l’imperatrice Eugenia, Manet, Berthe Morisot... La mostra presenta così per la prima volta al pubblico di lingua italiana l’opera interessante e originale di questa artista friburghese, che tanti legami ebbe con l’Italia e che passò anche per la mia Milano.

La vita e l’opera delle donne artiste, siano esse pittrici, scultrici, scrittrici, hanno avuto di recente una nuova fortuna. Se a partire dalla seconda metà degli anni Settanta del Novecento si sono sviluppate ricerche sulla storia delle donne finalizzate a dare visibilità a un soggetto a lungo tenuto ai margini delle indagini tradizionali, negli ultimissimi anni il ruolo femminile nella storia e nella storia dell’arte è stato irradiato di nuova linfa vitale.

Oggi l’arte realizzata da mani femminili non viene affrontata solo in quanto tale, ma anche come strumento per approfondire alcuni temi specifici, come quelli della famiglia, del lavoro, della cittadinanza, del rapporto tra sfera pubblica e domestica, della guerra, del corpo e della maternità, della religione e dell’istruzione. Un modo nuovo per ricostruire il vissuto delle donne (e degli uomini) e le loro esperienze singolari e collettive.

Per Marcello, però, c’era qualcosa in più che solleticava le mie corde.

Proprio com’è accaduto per lungo tempo all’opera di Jane Austen, infatti, così anche la produzione di Marcello (pur con i naturali distinguo tra arti e talenti) è stata troppo a lungo trascurata, probabilmente perché ritenuta un’arte di “non rottura”, un’arte per certi versi conformista, esposta nei Salons e riconosciuta dunque come “conservatrice” laddove il Novecento amava invece la novità delle avanguardie. Esattamente la stessa sorte hanno a lungo avuto i romanzi di Jane Austen, erroneamente interpretati come opere perbeniste e prive di spessore letterario, tutte trine e sposalizi. Solo alcuni personaggi di valore assoluto hanno intuito la forza e l’essenza delle opere della Austen, riconoscendola come «genio meraviglioso» (secondo le parole di Vladimir Nabokov) o come «la più perfetta artista fra le donne» (come la definì Virgina Woolf). Giudizi, questi, che raccontano un’eccezionale capacità di decodificazione e una profonda conoscenza della vita e dell'opera di Jane, oltre che una sensibilità assolutamente fuori dall'ordinario.

Così, pur coi dovuti distinguo, anche la vita e l’opera di Marcello, proprio come quella di Jane Austen, sono state a lungo sottovalutate. Adèle è stata una donna che ha utilizzato la sua arte in maniera professionale, anche come necessario introito economico, esattamente come facevano gli uomini e come aveva fatto la Austen. E’ stata una scultrice che ha trovato nella sorella la sua prima e più cara confidente (come la Austen la trovò in Cassandra), affidando alla scrittura e all’arte epistolare tanta parte di se stessa (esattamente come Jane). Adèle non si firmò col suo nome, si celò dietro a quello di Marcello, proprio come la Austen si firmò inizialmente “A Lady” per mantenere l’anonimato e per non incorrere nella condanna della società in cui viveva.
Per questo quando la direttrice Gianna Mina e la responsabile della comunicazione Tiziana Conte mi hanno presentato per la prima volta la figura di Marcello, mi è sembrato che il Museo Vincenzo Vela regalasse ad Adèle “una stanza tutta per sé”, quel luogo indispensabile per essere artiste che Virginia Woolf raccontò così sapientemente e amorevolmente nel suo saggio diventato leggenda.
Ma, nella storia di Adèle c’è un altro elemento sorprendente: si tratta del ritrovamento delle lettere dell’artista, rinvenute nello scrittoio dello Château d’Affry a Givisiez, dove aveva a lungo vissuto. 
E allora d’improvviso mi è parso che un elemento letterario che ha sancito la fortuna di romanzi come Possessione di Antonia Byatt diventasse realtà, plasmasse la realtà medesima. Quasi che in fondo, come scriveva Senofonte "Queste cose non accaddero mai, ma sono sempre", come nei miti antichi.