sabato 13 giugno 2020

Yoga e lockdown



Questa sono io fotografata di soppiatto da Ric a metà marzo, durante il lockdown. La cosa immensa che ci stava capitando (la cosa immensa che ci sta capitando) mi ha riportata al bardo del Libro dei morti tibetano: quello stato di sospensione tra una vita che finiva e una nuova che poteva e doveva iniziare. Nello stesso momento in tutti i paesi del mondo eravamo sospesi, nello stesso momento tutti insieme stavamo vivendo la stessa potentissima, sconvolgente cosa. Tutti dentro un ciclone, in punti diversi ma sempre in tempesta, come non era mai accaduto prima. Il mio lockdown mi ha ricordato ogni giorno che per pensare serve il corpo più che la testa. E senza lo yoga e il mio tappetino scuro su pavimento bianco non avrei sentito quello che ho sentito. Avrei sofferto meno (forse) ma avrei anche camminato e pensato e osservato meno. Avrei captato meno. Avrei avvertito meno. La scorsa domenica, a palestre riaperte, sono tornata a yoga per davvero. Ma poi oggi, per la prima volta, ho praticato con la mia classe e la mia insegnante di sempre. E abbiamo gettato fuori tutto quello che dovevamo gettare: un’energia e un odore da animali feriti, spaventati, sperduti. Quella cosa bollente lì che c’era nella stanza ci ha portati un po’ tutti alle lacrime, graffiandoci in faccia e facendo male. E poi ce ne siamo liberati. Perché la avevamo di fronte e la trasformavamo in qualcosa di diverso. Questo voglio tenermi. Non scordarmi un istante della belva. Non dimenticarmi mai del dimenticato. Come Kafka. E pensare che si’. C’è speranza. Infinita speranza. Forse non per noi, ma quest’ultimo dettaglio in fondo, ora che so che siamo tutti connessi, non conta quasi nulla. Namaste.