sabato 13 gennaio 2024

Perfect Days - Wim Wenders, il Giappone e il mondo che abitiamo

 A olfatto (già solo guardando la notturna locandina e ancor prima di vedere il trailer) Perfect Days era il film che cercavo per iniziare questo nuovo anno. Mi avrebbe fatto dono, mi dicevo, di uno spazio pacificato. Ho preferito non leggere recensioni prima di averlo visto: intuivo che mi avrebbe parlato da solo e preferivo lo facesse direttamente, senza intermediari (gli articoli li ho poi cercati e letti e ingoiati tutti – o quasi – ieri sera, uno più bello dell’altro, ognuno con un taglio diverso e un’attenzione a un pezzetto diverso: la musica, l’architettura, la luce, il ritmo, la fotografia). Vedere Wenders ieri al cinema (una sala pienissima, una sensazione bellissima) è stato come far yoga per due ore, seduta al buio, immobile, concentrata. Qualcuno ha detto che Hirayama è felice perché ha cancellato i suoi desideri. Per me no, anzi. Hirayama ha avuto una vita fatta di gioie ma anche di dolori (ce lo svela l’abbraccio con la sorella e ancor più la scena finale che è qualcosa da scompigliare le viscere e farti riprendere a respirare solo parecchio dopo i titoli di coda). Ma la sua felicità, il suo equilibrio, la sua spiritualità li ha trovati in una ritualità quotidiana che è lo scheletro che ci regge in piedi tutti, anche quando non ce ne accorgiamo. Sta sotto il flusso delle cose ordinarie e straordinarie, ci tiene in piedi quando cadremmo, ci spinge a sinistra quando ci sbilanciamo a destra. Non è solo la cura giapponese del bello (anche nelle toilette), non è l’ordine, non è nemmeno il collezionismo, credo. È l’abituarsi a uscire dall’abitudine. L’abituarsi a guardare quello che se no sfioriamo distratti, il darsi da soli delle regole (le musicassette le mette nello stereo in partenza, ma poi preme play solo dopo un certo pezzo di strada) che diventano riti e perimetri di un tappetino dentro cui facciamo esperienza di qualunque cosa ci passi intorno. Hirayama è presente a se stesso, è vivo, ama quel che fa, ma non perché lui sia il suo lavoro ma, viceversa, perché quel lavoro lui lo trasforma in una parte di sè e lo rende altissimo, elegantissimo, pacificatore. E non credo che questo sia tanto un elogio del piccolo o dell’umile, che forse sarebbe un po’ scontato, un po’ già visto. È l’intuire che quando parliamo di piccolo o grande, di lavoro prestigioso o di lavoro umile, di autore grande (Faulkner) o di autrice che non conoscono in molti (Aya Koda), applichiamo delle etichette: lasciamo che qualcuno ci dica dove e come guardare. Ma Hirayama no, lui guarda come vuole guardare. Lui fotografa come vuole fotografare. Ha il suo, personalissimo, modo. E ci invita a non fraintendere. Il suo non è un accontentarsi. Nono, perché le foto non riuscite Hirayama le strappa a metà e le getta via senza rimpianti. Semplicemente, Hirayama osserva a modo suo. Vive di immanenza e di connessioni più nascoste e meno visibili, come giocare a tris a distanza con un foglietto da scambiare nella fessura di un muro. E lo fa solo ora, dopo una vita diversa di cui non ci è dato sapere, se non in quello sguardo finale, in quel racconto di un volto dove c’è dentro tutto e che ci permette di intuire quanto basta. E di andarcene in giro, una volta usciti dalla sala, con un’attenzione tutta nuova verso quello che siamo, verso il mondo che abitiamo, verso i giorni perfetti e imperfetti che attraversiamo.




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