“Non salutammo mio padre. La mattina dopo arrivammo in California. Allora non lo capivo, ma sarebbe stata la nostra nuova casa. Per mia madre il modo per dimenticare mio padre era semplice. Tagliò via la sua immagine da ogni fotografia di famiglia. Per me, quei buchi rendevano più difficile dimenticarlo. In America, ho aspettato che venisse a cercarmi. Non lo fece mai. Mi sono spesso chiesta come sarebbe stato avere un padre. Me lo chiedo ancora”.
My Grandfather's Suitcase, Father series, 2014-2024.
Courtesy of the artist
Due mostre, anche se sono lontane, possono avere sguardo similari: a Les Rencontres d’Arles 2025, Diana Markosian racconta in Père la ricerca del padre scomparso, portando lo spettatore nel suo viaggio personale tra memoria, assenza e ricongiungimento. Portata negli Stati Uniti a sette anni senza salutare suo padre, Markosian torna in Armenia quindici anni dopo, senza fotografie né indirizzi, per ricostruire un legame interrotto. Video e fotografie si intrecciano, restituendo la fatica e la delicatezza di una riconciliazione familiare, il vuoto lasciato da anni di separazione e la complessità di ritrovare chi ormai è un estraneo. Al PAC di Milano, Shirin Neshat ripercorre trent’anni di carriera con un corpus di fotografie e video-installazioni che indagano esilio, genere e identità culturale. Dai corpi femminili scritti con calligrafie poetiche di Women of Allah fino a The Fury, Neshat intreccia intimismo e politica, Oriente e Occidente, memoria collettiva e storia personale. Il suo sguardo mette in scena la distanza (e pure l'assenza) come condizione esistenziale, trasformando la frattura in energia creativa. Due percorsi, due generazioni, due linguaggi diversi: Markosian ricostruisce la ferita privata di una famiglia divisa, Neshat illumina le tensioni di un’esistenza esiliata e culturale. Entrambe a mostrare che l’assenza può essere materia poetica, e che guardare il passato con coraggio è il solo passo che abbiamo se vogliamo abitare un nuovo presente.

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