domenica 2 novembre 2025

Nan Goldin, dai Rencontres all'Hangar Bicocca

 

«A volte è dentro di noi qualcosa che tu sai bene cosa perché è la poesia,
qualcosa di buio in cui si fa luminosa la vita.» — Pier Paolo Pasolini

C’è qualcosa di violentemente vero, quasi animalesco, nell’opera di Nan Goldin. Una verità che non fa sconti, che non crea distanza, che ti guarda dritta negli occhi mentre racconta ciò che spesso preferiremmo lasciare alle ombre. Quest’anno, tra Arles e Milano, abbiamo avuto modo di ritrovarla, o forse di essere ritrovati da lei: dalla sua brutalità tenera, dal suo rispetto feroce per gli esseri umani che ha fotografato per una vita intera.

Chi è questa donna formidabile? Una che ha sempre scelto la vita, anche quando faceva male.
Premiata da Les Rencontres d’Arles per un lavoro che «testimonia la complessità delle relazioni amorose e del potere, dando voce alle donne e alle persone invisibili», Goldin — nata nel 1953 a Washington D.C. — è una delle voci più radicali della fotografia contemporanea. La sua indagine sull’esperienza umana è ormai un’eredità culturale, un corpus che ha segnato generazioni come una cicatrice che non smette di pulsare.



Nan Goldin.
Young Love, 2024.
Courtesy of the artist / Gagosian


Dalla Ballad of Sexual Dependency, che dagli anni ’70 e ’80 ha seguito comunità bohémien tra Provincetown, New York, Berlino e Londra, ai ritratti degli amici, degli amanti, dei compagni di strada: Goldin ha sempre fotografato così, con una ruvida tenerezza. Nel quotidiano, nel sesso, nella festa sfrenata, nei momenti di intimità violenta e fragile. Il suo obiettivo è stato un testimone e un complice, un modo per custodire ciò che stava scomparendo: l’amore, la dipendenza, la libertà prima dell’AIDS, una giovinezza vissuta ai margini e contro le regole.

Eppure, ad Arles, la città della luce, Goldin sorprende ancora una volta. Non è la luce che le interessa — mai davvero — ma il punto in cui la luce cede, dove vacilla, dove apre una crepa che permette al buio di affiorare.
Stendhal Syndrome (2024) è forse il suo modo più chiaro per dirci che la bellezza, quando è troppo grande, quando ti investe senza pietà, può farti crollare. Qui mette in dialogo vent’anni di scatti a capolavori classici, rinascimentali, barocchi — Louvre, Met, Borghese, Gemäldegalerie — con i ritratti dei suoi amici e amanti trasformati in figure mitologiche: Galatea, Orfeo, Ermafrodito. Le Metamorfosi di Ovidio come un palinsesto privato, un modo per dire: anche la mia comunità è storia, anche loro meritano la grandezza, il mito, la verticalità della bellezza antica.
La sua voce, insieme alla colonna sonora di Soundwalk Collective e Mica Levi, porta dentro un ritmo che è liturgia e confessione, un battito che non si assesta mai.

Ad Arles, tra il riverbero abbacinante delle strade e il silenzio sospeso delle sale, si capisce con chiarezza che Goldin non si accontenta della luce. Ci passa attraverso per arrivare altrove. Nel buio in cui si fa luminosa la vita, direbbe Pasolini.

A Milano, all’Hangar Bicocca, la retrospettiva This Will Not End Well ci fa entrare nel suo villaggio interiore: padiglioni come case temporanee progettate da Hala Wardé, luoghi pensati per abitare uno sguardo. E qui il buio è ancora più feroce, più vero. Dai capolavori storici come The Other Side o Sisters, Saints, Sibyls, al trip claustrofobico di Memory Lost, fino ai viaggi nell’estasi di Sirens: Goldin non vuole consolare nessuno. Vuole che guardiamo. Vuole che restiamo. Vuole che restiamo umani.

I nuovi lavori, You Never Did Anything Wrong e ancora Stendhal Syndrome, portano tutto questo oltre, verso un’astrazione poetica che parla di vita, morte, cicli naturali, miti antichi e corpi contemporanei. Come se l’artista avesse iniziato a guardare il mondo da un punto più alto, più stanco forse, ma ancora profondamente innamorato della vita.

Perché, nonostante il titolo — This Will Not End Well — ciò che Goldin porta con sé è, forse, una joie de vivre incrollabile, una vitalità che nasce proprio dal riconoscimento del dolore, dall’onestà con cui attraversa il buio.

E allora Arles — città di luce, città di Van Gogh, città che abbaglia — diventa il luogo perfetto per dirci questo: che la fotografia di Goldin non è luminosa perché ritrae la luce, ma perché la cerca dove nessuno guarda. Nel fondo, nel taglio, nelle cicatrici. Come Pasolini.




Nan Goldin.
Young Love, 2024.
Courtesy of the artist / Gagosian.

Nessun commento:

Posta un commento