Nella notte tra il 25 e il 26 agosto 1992 una serie di bombe distrugge oltre 2 milioni di libri, manoscritti, lettere, riviste, documenti conservati nella Biblioteca Nazionale di Sarajevo, emblema di una cultura aperta, molteplice, plurale. Pompieri e impiegati cercano di salvare il salvabile e la bibliotecaria Aida Butorovic perde la vita. Poche settimane dopo, il violinista Vedran Smailović sfida i cecchini e si mette a suonare, lì in mezzo alle rovine. Lo ha già fatto pochi mesi prima, suonando per 22 giorni in memoria di 22 vittime del conflitto. A Sarajevo quando si parla dell’ultima guerra ci si riferisce a quella del ‘92. Noi visitatori non capiamo subito, l’ultima guerra per noi è quella del 1945 e dobbiamo fare un salto di pensiero per comprendere che qui anche le parole comuni hanno un significato tutto diverso. Perché questa è la città dove il festival del cinema nacque in pieno assiedo, dove il teatro continuò a funzionare, dove Susan Sontag mise in scena il suo Godot durante la guerra, dove Zatklo Dizdarevic e il suo giornale continuarono a testimoniare, dove le gallerie organizzarono mostre e vernissage, dove la vita culturale, nonostante la biblioteca devastata, non venne mai fermata. Non lasciarsi uccidere da vivi. Continuare sempre a suonare. Come fu per Sarajevo.
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