venerdì 16 ottobre 2009

Momenti d'essere

In ogni giornata il non essere è molto di più che l'essere.Ieri, per esempio, Martedì 18 aprile, si da il caso che fosse una buona giornata; superiore alla media quanto ad .C’era il sole, mi sono divertita a scrivere queste prime pagine; mi sono tolta il peso della biografia di Roger, ho fatto una passeggiata… questi isolati momenti di essere erano tuttavia racchiusi in momenti di non essere molto più numerosi. 



Ho già dimenticato di cosa parlò Leonard a pranzo; e all’ora del tè; benché ieri fosse una buona giornata, quel bene era avvolto in una sorta di ovatta senza contorni.È sempre cosi. Gran parte di una giornata non la si vive consciamente.Si cammina, si mangia, si vedono delle cose, si provvede alle nostre incombenze.(...)Forse è dunque la capacità di ricevere scosse che fa di me una scrittrice. Posso azzardare la spiegazione che a ogni scossa nel mio caso, segue immediatamente il desiderio di spiegarla. Lo sento, il colpo, ma non è più come credevo da bambina, un colpo sferrato, da un nemico nascosto dietro l’ovatta della vita quotidiana; è o diventerà la rivelazione di un altro ordine, è il segno di qualcosa di reale che si cela dietro le apparenze; e sono io che lo rendo reale esprimendolo a parole, gli conferisco unità; e questa unità significa che ha perduto il potere di farmi del male; mi da una grande gioia, forse perché così facendo tengo lontano il dolore, rimettere insieme i frammenti, questo è forse il piacere più intenso che io conosca…Di qui nasce, potrei dire, una filosofia; o comunque l’idea che ho sempre avuto; che dietro l’ovatta si celi un disegno; che il mondo intero sia un’opera d’arte; che noi siamo parte di quell’opera d’arte. L'Amleto o un quartetto di Beethoven è la verità su questa massa immane che chiamiamo mondo. Non esiste nessuno Shakespeare; non esiste nessun Beethoven; sicuramente e decisamente non esiste nessun Dio; noi siamo le parole, noi siamo la musica, noi siamo la realtà"

giovedì 15 ottobre 2009

I giardini di Manhattan

I giardini di Manhattan. Storie di guerrilla gardens


Con questo libro Michela Pasquali accompagna il lettore in un singolare viaggio attraverso i numerosi giardini nati nelle aree abbandonate di Loisaida, un piccolo quartiere di Manhattan, nato alla fine dell’Ottocento per accogliere le grandi ondate di immigrati. Il libro ne racconta le origini, lo sviluppo, l’evoluzione nel corso di ormai più di trent’anni. Creati grazie all’iniziativa della comunità locale a partire dagli anni settanta, sono uno dei casi più interessanti di un inedito e prezioso patrimonio di verde urbano nascosto. Un insieme di culture, lingue, religioni e abitudini, che si sovrappongono e spesso si ritrovano nei nomi scelti per ciascuno dei giardini: El Sol Brillante, Brisas del Caribe, Miracle Garden, Jardin de la Esperanza, Creative Little Garden. «Il processo di creazione che ha dato vita a ciascuno di questi giardini non costituisce un’esperienza a sé e non è, in nessun caso, oggetto di mestiere; rientra invece tra le tante espressioni della quotidianità, come il modo di vestirsi, di parlare, di cucinare. Nei giardini, come nelle manifestazioni della vita di tutti i giorni, agisce infatti un medesimo tipo di rappresentazione, in cui un individuo si trova al centro di uno spazio, che costruisce e sviluppa come estensione della sua vita privata. Ogni giardino diventa il luogo possibile nel quale dare corpo a interpretazioni personali, al gusto del caos, alla follia di assemblaggi dettati da affetti, tradizioni, culti e credenze. Esso tende a configurarsi come territorio-possedimento, dove i segni dell’appropriazione fisica e simbolica si identificano con la disposizione di piante e fiori, con la scelta e la collocazione di oggetti. Questi elementi si compongono in sistemi originali, connotando spazi addomesticati che rivelano la mano e la proprietà del giardiniere».
l'autore
Michela Pasquali, paesaggista e botanica, ha progettato giardini in Italia e negli Stati Uniti. Da diversi anni si dedica allo studio dei giardini spontanei, creati nelle aree abbandonate in ambienti urbani degradati. Ha vissuto quattro anni a New York, dove ha fotografato e studiato i community gardens di Loisaida, oggetto di questo libro. Il suo lavoro prosegue nella pagina web www.criticalgarden.com (info tratt dal sito Bollati Boringhieri)

fernanda pivano

http://fernandapivano.blogspot.com/

venerdì 2 ottobre 2009

DAMA DI LUCE

Quando arriva il mattino, puntualmente lei si fa avanti e torniamo a incontrarci. Il suo corpo filiforme e allungato si avvicina svelto e di nuovo mi abbraccia.
La dama di luce è nata sul fare dell’alba, molto tempo fa. Grazie a Ben, anche se lui non può saperlo.
Ogni sera si avvicinava alle imposte e le accostava pian piano, sia quelle lunghe in basso, sia quelle altre, più piccine ma protese verso il soffitto. Ben chiudeva e si metteva a dormire.

Finchè non ci sono state le tende gialle, quelle acquistate dal signore all’angolo in un pomeriggio d’estate, finchè quelle tende sono mancate, la dama di luce non si è mai fatta viva. Poi è arrivato il gran giorno.

Il sole è cascato nel cortile ed è rimbalzato sulle biciclette per infilarsi dentro casa. Ha cercato e trovato uno spiraglio tra le imposte e le stecche delle tende gialle. Così la fessura verticale lungo le imposte si è trasformata in un elegantissimo corpo tubolare su cui, inclinata, compariva (e compare) il volto brillante della signora con le sue braccia spalancate verso il giorno. Lo spazio orizzontale tra imposte basse e alte si è fatto d’improvviso acceso e la dama ha avvolto l’appartamento come non aveva mai fatto.

E’ parecchio ormai che ci conosciamo. Al mattino parliamo in silenzio, del passato mio e del non detto, della fantasia in fondo, perché la realtà arriva solo qualche minuto dopo la nostra conversazione.

La dama di luce mi ricorda chi sono, mi ricorda un balcone di tanti anni fa, mi ricorda un putto di pietra, mi ricorda che le cose passano e ritornano ma che mai le perdiamo davvero.

Ha il sapore del vento. So che un giorno scapperà via, magari al cambio delle tende. Eppure questo non cambia niente.

Io la vedo. L’ho mostrata a Ben. Anche lui l’ha vista. E ora, sono sicura, chiude le imposte con grande attenzione per non sciuparle il vestito.

Questa notte… altro letto, altra casa. Ma so che da qualche parte la dama di luce continuerà ad aspettarmi ed a essere bella come solo lei sa fare.

giovedì 1 ottobre 2009

LA ROSA PURPUREA DEL CAIRO di Woody Allen

Cara Cecilia,
Ti osservo dal buco della serratura. Non chiedermi, ti prego, chi di noi due sia quello dentro lo
schermo o al di là di esso, perché non potrei dirlo con sicurezza e in ogni caso non importa molto.
Ti ho vista al cinema, nel luogo dove nei momenti liberi ti rifugi a respirare; è come se ti sedessi
davanti allo schermo per vivere un po’ anche tu, almeno nei ritagli di tempo. Sì perché immagino,
sono sicuro, che il bar e quel tuo grasso e stolto marito rappresentino uno dei brutti sogni che
arrivano la notte. (Io vado a dormire con la pace nel cuore, Cecilia, perché forse domani non mi
sveglierò e questa corsa che mi uccide avrà fine).




Quando la tua finzione, la nostra, amore, è
diventata realtà, quando son balzato fuori dallo schermo col mio cuore leale e puro e i miei soldi da
scena e il mio ridicolo casco, allora, Cecilia, venivo verso di te, accettavo il tuo mondo fatto di
finzione vera e di grigiore per amor tuo. Per te, Cecilia, accettavo il dolore e il pianto di chi fa
l’amore senza amore, di chi pensa che un esploratore in fuga sia gretto quanto lo è lui, di chi picchia
la moglie per farla rigar diritta (come l’hai sopportato, Cecilia, come hai fatto a non fuggire prima?
E del resto, fuggire? Come avresti potuto?). Qui fuori ti bacio e non c’è dissolvenza, sì, insomma,
manca qualcosa, qualcosa non funziona, come per le lampadine fulminate. Però il sapore della pelle
dalla pellicola non si sentiva. La tua, per esempio (per esempio? Ma se conosco solo la tua?), la tua
sa di pesca e dei pop-corn che ti porti in sala e poi sa di lavanda e di amido; non so come dire, forse
proprio di pulito, niente celluloide: carne allo stato puro. E ora mi hai lasciato. Sono tornato in
questo mondo in bianco e nero che non profuma di niente e non ha sapore. Ma che ti fa sognare. Se
mi alzo ogni giorno, se ogni giorno torno al Copa Cabana, Cecilia, lo faccio per te, per regalarti un
sorriso e continuare a baciarti, anche se da lontano. Non so se tu sia ancora lì tra il pubblico (ho
sempre avuto paura di voltarmi. Da allora non ti ho più cercata perché in quel mondo misterioso tu
potresti non esserci più e non potrei sopportarlo…) ma sento la tua presenza, i tuoi occhi su me e
vivo adesso e ogni giorno il nostro amore, pieno di quelle altre dissolvenze, quelle di cui il cinema
non è capace. Io ti salvo. Voglio crederlo. Devo crederlo per continuare a vivere, o a non-vivere, se
preferisci. E non so nemmeno se lui, l’altro, il mio altro, io insomma sia tornato a prenderti…
Se ben lo conosco posso dire con certezza che lui non c’è, che lui è fuggito e non ritornerà.
Che io invece resisterò sempre; e solo questo ci salva entrambi perché sempre mi alzo e parto al
mattino alla ricerca di ciò che voglio donarti e che ogni giorno ti porgo
La mia rosa purpurea strappata al deserto del mitico Cairo.