mercoledì 21 agosto 2013

Nara e Delfi: dove le statue prendono vita

Tutti coloro che visitano il Kansai confessano per Nara una passione viscerale. Impossibile dargli torto.


Appena si arriva alla piccola stazione (io giungevo da quella enorme e futuribile di Kyoto) si avverte nell'aria un'euforia quasi alcolica che cresce via via mentre ci si avvicina al Todai-ji, uno tra i templi più noti del Giappone. Qui si trova, in un tripudio di superlativi da mozzare il fiato, la più grande statua bronzea del mondo contenuta all'interno della costruzione lignea più imponente del pianeta.

Eppure la magia di Nara non deriva da qui. Non è mai la grandezza in Giappone a lasciare stupefatti. E' piuttosto la perfezione e la cura del dettaglio. E ancor più, forse, ciò che si respira nel verde.

Questi santuari maestosi e massicci si ergono quasi sempre immersi tra alberi e piante, tra sentieri e percorsi di pietra, spesso circondati da animali messaggeri degli dei, come nel caso di Nara e dei suoi cerbiatti.

Per questo a Nara mi sono sentita come solo una volta nella vita mi era già capitato. Mi trovavo a Delfi,  lungo il percorso di scoperta del santuario. A Delfi sono stata catapultata nell'omphalos del mondo. Ho avvertito il respiro della Pizia soffiare distintamente nel mio orecchio. Proprio come a Nara ho udito chiara e inconfondibile la voce della terra.


Questi spazi non sono diventati sacri per la magnifica statua del Buddha dallo sguardo pacificatore, né per il perfetto tempio di Apollo, dio del sole. Questi spazi erano già sacri prima e uomini come noi hanno qui reso omaggio alla religione che è la più antica di tutte: quella della natura e della sua energia potente, vitale e allo stesso tempo distruttrice.

A Nara come a Delfi c'è pace. C'è pace anche grazie ai due mostruosi figuri che proteggono il tempio (Ungyo e Agyo) e a quell'essere raccapricciante col cappuccio rosso, a destra dell'entrata, che a noi occidentali pare la morte e qui rappresenta la compassione per gli oppressi e per chi soffre. A Delfi c'è pace nella luce e anche nelle tenebre, grazie alle rocce appuntite e all'asprezza della fonte Castalia.

Qui, come laggiù, due statue in bronzo. Quattro occhi che guardano un punto oltre la nostra testa. Per questo a ripensare all'auriga di Delfi (tra le più belle cose mai realizzate su questo pianeta) mi pare diventi ancora più chiaro cosa abbia rappresentato 1300 anni fa la cerimonia di "apertura degli occhi del Buddha": 10 mila persone in festa per celebrare la statua che prendeva finalmente vita.

(...) Di queste domande che ricorrono,
degli infiniti cortei senza fede, di città piene di sciocchi,
di me stesso che sempre mi rimprovero (perché chi più sciocco
di me, e chi più senza fede?)
di occhi che invano bramano la luce, di meschini scopi,
della battaglia sempre rinnovata,
dei poveri risultati di tutto, della folla che vedo sordida
camminare a fatica attorno a me,
dei vuoti ed inutili anni degli altri, io con gli altri legato in tanti nodi,
a domanda, ahimè, la domanda così triste che ricorre: che cosa
c’è di buono in tutto questo, ahimè, ah vita?
Risposta:
che tu sei qui, che esiste la vita e l’individuo,
che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuirvi
con un tuo verso..
W.W.

Kyoto, mon amour


Quest'estate sono stata travolta da un insolito destino nell'azzurro mare di agosto.

Ci sono città che ti sorprendono all'improvviso come il sapore di spezie nuove sulla punta della lingua. Con Kyoto è andata così.

Mi aspettavo una città maestosa e ricca di storia, monumenti, santuari.
Invece mi sono trovata di fronte a un luogo non solo intriso, ma composto di bellezza. Nato dalla bellezza. Non un telo  bianco pucciato nella tintura, ma una città le cui fibre originarie sono fatte di colore e luce. Anzi di tubetti di pittura, lanterne di pietra e racconti millenari.


Il primo ricordo a caldo, dopo appena qualche giorno, corre veloce al fiume Kamo. Un corso d'acqua discreto, ma anche fiero ed elegante che scorre attraverso il cuore della città costeggiando Gion e Pontocho, i quartieri delle Geishe, il germe pulsante delle notti fi Kyoto. D'estate i locali sulla riva del Kamo costruiscono delle pedane che sporgono sull'acqua. Sono le cosiddette kawayuka che esistono da tempi immemorabili come mostra l'immagine qui sopra. Così, quando dopo una giornata afosa me ne stavo lì -seduta ai tavolini del Sent James Club, con la mia Sapporo gelida tra le mani ad osservare il rosa del tramonto trasformarsi in oro,  in rosso fuoco e infine in blu elettrico- avevo di fronte edifici tradizionali giapponesi e palazzi da ville lumière. Come quello che vedete nella parte sinistra della foto in alto, il Tokasaikan. Un edificio ultimato negli anni Venti del Novecento dall'americano William Merrell Vories, trasferitosi in Giappone per insegnare inglese e rimasto poi qui per amore rispolverando anche la sua antica professione di architetto.

Ecco la prima folgorante rivelazione. Quella sera ho sentito che Kyoto era una città in sintonia col mio spirito. Una Parigi d'Oriente, fatta di miscellanie e di sincronie. Una città che -una volta scoperta- diventa l'amore della tua vita e non ti lascia più.

Sì, Kyoto Mon Amour.