sabato 25 dicembre 2010

Bunker, l'uomo artigiano e il Museo del Novecento



Bunker a Natale mi ricorda chi siamo per davvero.
Bunker è autentico, anche quando rapina un negozio per poche centinaia di dollari. E poi li usa per pagare un motel e una prostituta.

Quest’anno ho cercato di dedicarmi a cose che mi sembrassero autentiche. Sempre. Non vorrei spiegarmi male, non si è trattato di una scelta di realismo, al contrario. Si è trattato di un desiderio di concretezza e artigianalità che sentivo necessario abbracciare. Per mio nonno, ma non solo.

Volare tra le nuvole come fa Totò in Miracolo a Milano, per me è una cosa concreta, reale, autentica. Per me Totò vola per davvero e non ho problemi a dirlo.

Questo per dire, come scrivevo qualche giorno fa, che spesso nel corso di quest’anno e della mia vita (nel 2011 sono 30!) l’immaginazione ha avuto più peso del quotidiano. Gli dei falsi e bugiardi di oggi sono tantissimi, quindi l’unica strada percorribile per scacciarli, per una come me, mi è sembrata quella di tornare alla mitologia greca e agli dei veri. Ecco ecco: ho trovato la frase giusta scritta da uno che sa esprimersi molto meglio di me “Queste cose non accaddero mai, ma esistono sempre” .

Il 2010 è stato un anno all’insegna di voli su scope, letture, scritture, immaginazioni. Nella mia testa son successe cose terribili e meravigliose, apocalittiche e illuminanti. Quelle immagini in movimento mi rivelano un pezzettino di quello che sono e che a volte dimentico di essere. E invece è fondamentale non dimenticarsi di aver dimenticato. Se non si dimentica di aver dimenticato, possiamo sopravvivere e non lasciarci travolgere dall’inessenziale.

Quest’anno ho conosciuto persone, storie, spazi che mi porterò dietro per tutta la vita, che mi hanno colpita, ammaliata, scossa e percossa. E’ con questo spirito che mi preparo alla partenza newyorchese. Pronta ad assorbire l’assorbibile e lasciare che il vento mi travolga.

Come l’altro giorno, a braccia spalancate sotto al neon di Lucio Fontana a godermi la bellezza fresca e conturbante del Museo del Novecento (qui in alto nella foto di Silvia Rizzi). Finalmente.

sabato 4 dicembre 2010

Shoshanna


Questo è stato un anno denso di cinema. Per tante ragioni.
Monicelli innanzitutto. E il suo manifesto di dignità, come lo ha chiamato Ida.
Il lavoro in secondo luogo. Dentro al cinema, dentro allo schermo, dietro allo schermo. Prima del film, ai suo margini, vicino al contorno.
Sfiorare il cinema. Aver voglia di toccarlo. Nella certezza che possa essere “un resistente”, possa essere vendetta anche, come per la Shoshanna di Tarantino.
Il più bell’incendio della storia.

Poi è arrivato Inception.
Lo scrivo e cado dalla sedia. Non so se per passare al livello inferiore o a quello superiore.
“Qual è il parassita più resistente? Un batterio? Un virus? Una tenia intestinale? No, un’idea. Persistente, contagiosa. Una volta che si è impossessata del cervello è quasi impossibile sradicarla. Un’idea pienamente formata, compresa, si avvinghia qui dentro, da qualche parte”
E allora anche il rogo di Shoshanna potrebbe essere accaduto veramente, potrebbe essere in corso ora, da qualche parte.

Il pericolo è sempre quello di smarrirsi. In mezzo alle storie, in mezzo alle immagini, in mezzo ai sogni.
Sono le cose di cui mi sono sempre nutrita quelle di questo elenco. Più del cibo, più dell’acqua, più dell’aria. Ognuno ha chimicamente la sua aria. Le mie molecole vitali son fatte di quelle sostanze lì e questo rende tutto più pericoloso.
Tina lo sa. Per tutte le notti che è stata con me senza Weston.
Il confine è sempre labile, tra vita e morte, tra verità e immaginazione. Più di quanto immaginiamo.

Ma se una cosa è vera come la finzione, è vera o no?
E in realtà importa che sia vera? Importa etichettarla se tanto non credi in Dio?
Quanto è finto un toro di Picasso rispetto a un toro vero? E allora perché mi piace altrettanto? E perché cercarlo e crearlo se la natura ha già creato il suo originale?

La finzione emana bellezza perché cerca le sue verità. O le rivela.
Io inseguo la bellezza.

E se la curiosità è forma pura di insubordinazione, Lolita diventa il fuoco dei suoi lombi. Se no non sarebbe esistita e non avrebbe dato scandalo. Lo-li-ta.

Forse.

martedì 2 novembre 2010

Voce inaspettata. Dedicata a P.P.P.

La voce inaspettata
-inascoltata-
Del poeta.

Silente rimane la vita
Degli altri.
Nulla scalfisce
Le occupazioni quotidiane del mondo.
Nulla può il verso
Contro la stupidità e la vergogna
-arma di carta su fiume-

Le menti assopite
Non stanno a sentire.

Pier Paolo muore
Ed è condannato
L’amore diverso
e intollerato
da chi
tra le dita
soltanto stringe
“il sentimento medio della vita”.

Meglio non vedere
Meglio non sentire
Nell’Italia delle stragi
E dei morti ammazzati.
Meglio condannare chi ama
E chi scrive
Meglio ammazzarlo il poeta
Meglio affossarlo

Tappàti gli occhi e le orecchie
Sul lido di Ostia
Rimane il silenzio

In me
oggi
Forte e distinto,
Pier Paolo,
ancora riecheggia
intatto
il tuo forte lamento.

venerdì 30 luglio 2010

Garden in Progress


E così i lavori sono finalmente iniziati. Per questo proverò a raccontare che cosa accade qui intorno. Posto che il progetto del giardino l'ho fatto io, il mio superrevisore è stato il mitico sig. Scarpellini di cui scriverò di tanto in tanto.
Ieri notte comunque è stato pazzesco.
Di rientro da Milano, abbiamo scorto in mezzo al buio gli ippocastani, le rovelle e poi il fico e le pendule...

Tutti personaggi di cui parleremo via via.

giovedì 24 giugno 2010

Mitologia degli alberi


Da aperta che era un tempo, l’umanità si è sempre più rinchiusa in sé stessa. Tale antropocentrismo non riesce più a vedere, al di fuori dell’uomo, altro che oggetti. La natura nel suo complesso ne risulta sminuita. Un tempo, in lei tutto era segno, la natura stessa aveva un significato che ognuno, nel suo intimo, percepiva. Avendolo perso, l’uomo oggi la distrugge, e con ciò si condanna. Lévi-Strauss

lunedì 31 maggio 2010

Trois Coleur


BLEU, liberté
Quando l’auto di Julie si schianta contro un albero la sua storia finisce e ne inizia una nuova. Senza marito, senza figlia, senza passato: meglio riniziare da zero che accettare la perdita, meglio essere libera da loro in ogni cellula, cancellare il passato, diventare una nuova. Questo tuo corpo sopravvissuto senza ragione, Julie, non merita più nulla e allora il tuo pugno grattuggiato contro un muro ti fa sentire quel dolore di cui hai bisogno come Corazzini e come me, un dolore bruciante ma vivo, che faccia male, che faccia il più male possibile: dev’essere forte per ovattare le voci che senti, le voci che ti gridano da dentro. Da qualche parte la tua bimba sta piangendo, Julie? Riesci a sentirla? Fa’ che resti solo un pendente blu, come la luce sul tuo viso, una sorta di lampadario magico, o forse la tua lampada di Aladino capace di riportarti alla donna che eri. C’è un uomo lì fuori che continua a cercarti, ad amarti, a sognare di te, a scrivere musica che parla di te. E’ lui che ti ha stretta quando ti sentivi un cadavere in putrefazione, ma un cadavere vivo, che fa più orrore dei morti, che fa più pietà: mi ricorda quello di una vecchia che tenta con tutta la sua dignità di gettare un bottiglia nel contenitore del vetro; la sua schiena è tanto piegata dal mondo che il suo braccio non arriva lassù, non arriva… Ci penserà quello di Valentine, ma in un altro film, in un’altra storia. Quando a un certo punto decidi che la musica di lui non deve morire, che è il figlio che ti ha lasciato come a quell’altra che ora lo ha in grembo, allora e allora soltanto accetti pure tu di essere salvata. Per la musica, per l’arte, perché così è, dalla notte dei tempi. Nel dolore sopravviviamo ai nostri lutti e ci vorremmo morti e ci odiamo per questo restare a galla che è l’umanità. Solo una manciata di persone tra mille, come per un naufragio sulla manica.

BLANC, egalité
Uguali nel bene e nel male. Uguali pure nella menzogna e nell’inganno. Karol: bisogna rendere pan per focaccia. In fondo nei grandi amori la passione non si misura in sofferenza? Eppure che meraviglia quest’uomo che non riesce a soddisfare sua moglie, che la ama comunque nonostante la sua crudeltà felina, nonostante l’umiliazione cocente: chiami al momento giusto, Karol, ascolta. E’ l’orgasmo della moglie dall’altra parte del filo. Questo telefono ci nasconde e ci rivela nei trois couleurs: una medaglietta perduta nel primo, un affannoso inseguimento del piacere ora e un giudice spione nell’ultimo. Intanto un’altra vicenda: l’amico che ti ha portato in Polonia, Karol, vuole essere ammazzato: tu accetti e fai di più, questa vita di merda che lui sta gettando sotto una metro gliela rendi pulita, innevata, stravolta. Per finta si può morire una volta soltanto. Domanda sul bianco: come si può continuare ad amare gli stronzi, chi, come Domenique, ci fa tanto soffrire? Nella mia testa risponde De André col suo “uomo onesto e buono che si innamorò perdutamente di una che non lo amava niente” . E qui risponde Kiéslowski con una scena finale muta e sognante: quando esco di qui io e te, amore, ci sposiamo di nuovo. In fondo pure Domenique può essere umana: lo diventa di fronte alla sofferenza, di fronte alla morte (fasulla, ma che cambia?) e all’umiliazione. Fuori dalla prigione Karol la spia con un binocolo. E piange.

ROUGE, fraternité
I fili tornano infine a intrecciarsi come per un arazzo ben definito. Valentine salva un cane, Rita, che ha investito per errore e per errore scopre che il suo proprietario è un ex giudice che controlla le telefonate dei vicini. Ognuno ha un suo più o meno terribile segreto: ricordi, Conchita? Il nostro sacco di liuta ce lo portiamo appresso pure in città. Così: qui pro quo. Sacco per sacco, perché la calamita Rita ha voluto così. E chi è Rita in fondo se non la natura, il caso, la fatalità? Quel tutto informe e tuttavia incancellabile che domina e accompagna le nostre giornate? Sputar fuori il rospo diventa allora un imperativo categorico, l’unico modo per andare avanti. Ed è così che avviene la catarsi: basta fidanzati asfissianti e bugiardi, basta sfilate, basta fotografie artefatte e esercizi sfiancanti! La vita vera resta altrove. “Come posso aiutarvi?- Devi esistere- Cosa intendete?- Esistere, esistere e basta”. Questo rincorrere un telefono che squilla e una chiamata che arriva sempre nel momento inopportuno (o che non arriva proprio) fa da colonna sonora a tutto il film. E come fratelli i vari protagonisti si rincontrano tutti su una navetta da salvataggio perché la Manica ha inghiottito tutto il resto. E allora ecco Julie e Olivier; ed ecco Karol e Domenique; e infine Valentine e il giovane tradito dalla bella bionda: il giudice da giovane, senza dubbio. Il passato che torna e si aggancia al presente. La realtà che supera ogni arte, l’ultimo fotogramma in cui Valentine è la fotografia gigante appesa ad un palazzone.
Degli occhi impressionanti quelli di Kiéslwoski. Mi ricordano chi non vorrei come il suo viso e le sue sigarette. Ma Julie non mi ha forse insegnato qualcosa? Julie e Karol e Valentine: non siamo tutti insieme sopravvissuti NOI sette? Il settimo era il barista del traghetto, un esterno, cioè, uno spettatore. Io?

mercoledì 5 maggio 2010

PRIMAVERA, ESTATE, AUTUNNO, INVERNO… E ANCORA PRIMAVERA

Questo nuovo post, dopo lungo silenzio, è dedicato ad Alessandra Piccoli e alla sua Alchimia d'Arte.

PRIMAVERA, ESTATE, AUTUNNO, INVERNO….
E ANCORA PRIMAVERA

Di Kim Ki-duk

Il male che fai agli altri può colpire anche te: se leghi un sasso a un pesce, a una rana, a un serpente, forse un mattino ti sveglierai con una pietra sulla schiena. La natura funziona davvero come un cerchio. Ed è necessario imparare che nulla ti appartiene per sempre, nemmeno i sentimenti e le parole di quelli che ti amano, e sei costretto ad accettarlo se non vuoi trovarti con un coltello tra le mani e un sasso sul petto ( e nessun maestro potrà mai aiutarti a lasciarlo cadere alle tue spalle). Le stagioni tornano, torna lo stesso bambino dell’inizio del film, con i medesimi divertimenti e lo stesso sorriso. La differenza è che quella donna nell’acqua gelida, la donna che ti lascia suo figlio, diviene per te la donna che hai ucciso, senza volto, con il suo volto. In qualche modo anche lei è riuscita a tornare. Pare che la visione ciclica del tempo sia concezione tipicamente occidentale (Settis), eppure il film e la cultura d’oriente dimostrano che il culto dell’eterno ritorno è davvero patrimonio comune. Ciononostante ogni vita fa da sé; nulla di ciò che si impara, nulla di ciò che si conosce o si ama è definitivo. Non lo è per noi, figurarsi per gli altri! Si ricomincia, da capo ogni volta e si fallisce in certi casi e ci si dà fuoco in mezzo a un lago, con la bocca e gli occhi coperti. E’ difficile diventare maestri. E’ impossibile diventare maestri. L’ultima scalata e poi il Buddha vi guarda dall’alto, vi implora, vi sprona. La tua pietra per il tuo assassinio l’hai portata lassù e la porti però sempre con te…
Ricordi la sepoltura del pesce?
Ricordi come piangesti ritrovando il serpente in una pozza di sangue?
E intanto la primavera torna e poi l’estate, l’autunno, l’inverno
… ed è ancora primavera.

domenica 14 marzo 2010

Tutto su mia Madre di Pedro Almodovar

“- Noi donne siamo più tolleranti
- No! Noi donne siamo più coglione”

Hanno ragione un po’ tutte e due.
Se lo vivo direttamente sulla mia pelle, questo film mi provoca una specie di prurito, un déjà vu sofferente: ho voglia di urlare assieme alla madre di Esteban:

Figlio mio, NO! Figlio mio!

Perché a volte davvero gli esseri umani sono come Lola, una pestilenza, devastano tutto al loro passaggio e noi altri, noi altre, li lasciamo fare, un po’ per inesperienza, un po’ per restare fedeli a noi stesse, per non diventare a nostra volta delle pestilenze. Rosa è così atipica, pulita, inconsapevole.. Ecco Lola le fa un grande regalo, ma poi le porta via tutto, senza pietà e senza coraggio. Ma siamo ugualmente responsabili di quel male di cui non siamo consapevoli? Siamo condannabili se abbiamo agito senza guardarci alle spalle?
Ci sono una sofferenza e una forza indicibili in questo film che è un viaggio continuo: Madrid -Barcellona, Barcellona - Madrid e poi ancora Barcellona. Per far sapere, innanzitutto, e poi per salvare e per rinascere. Questi bambini che gli uomini ci lasciano in grembo, l’unica cosa certa di loro, questi figli che perdiamo sotto un’auto o in guerra, sono l’unica prova concreta della loro esistenza e del loro passaggio. E ad essi ci aggrappiamo in memoria di loro, della pestilenza con cui hanno travolto la nostra vita prima della loro fuga. E ancora li amiamo, ancora li cerchiamo, ancora li perdoniamo. Oppure No.
Perché siamo più tolleranti o forse….
Forse solo più -irrimediabilmente- coglione.

lunedì 1 marzo 2010

La rosa purpurea del Cairo di Woody Allen

Cara Cecilia,
Ti osservo dal buco della serratura. Non chiedermi, ti prego, chi di noi due sia quello dentro lo
schermo o al di là di esso, perché non potrei dirlo con sicurezza e in ogni caso non importa molto.
Ti ho vista al cinema, nel luogo dove nei momenti liberi ti rifugi a respirare; è come se ti sedessi
davanti allo schermo per vivere un po’ anche tu, almeno nei ritagli di tempo. Sì perché immagino,
sono sicuro, che il bar e quel tuo grasso e stolto marito rappresentino uno dei brutti sogni che
arrivano la notte. (Io vado a dormire con la pace nel cuore, Cecilia, perché forse domani non mi
sveglierò e questa corsa che mi uccide avrà fine). Quando la tua finzione, la nostra, amore, è
diventata realtà, quando son balzato fuori dallo schermo col mio cuore leale e puro e i miei soldi da
scena e il mio ridicolo casco, allora, Cecilia, venivo verso di te, accettavo il tuo mondo fatto di
finzione vera e di grigiore per amor tuo. Per te, Cecilia, accettavo il dolore e il pianto di chi fa
l’amore senza amore, di chi pensa che un esploratore in fuga sia gretto quanto lo è lui, di chi picchia
la moglie per farla rigar diritta (come l’hai sopportato, Cecilia, come hai fatto a non fuggire prima?
E del resto, fuggire? Come avresti potuto?). Qui fuori ti bacio e non c’è dissolvenza, sì, insomma,
manca qualcosa, qualcosa non funziona, come per le lampadine fulminate. Però il sapore della pelle
dalla pellicola non si sentiva. La tua, per esempio (per esempio? Ma se conosco solo la tua?), la tua
sa di pesca e dei pop-corn che ti porti in sala e poi sa di lavanda e di amido; non so come dire, forse
proprio di pulito, niente celluloide: carne allo stato puro. E ora mi hai lasciato. Sono tornato in
questo mondo in bianco e nero che non profuma di niente e non ha sapore. Ma che ti fa sognare. Se
mi alzo ogni giorno, se ogni giorno torno al Copa Cabana, Cecilia, lo faccio per te, per regalarti un
sorriso e continuare a baciarti, anche se da lontano. Non so se tu sia ancora lì tra il pubblico (ho
sempre avuto paura di voltarmi. Da allora non ti ho più cercata perché in quel mondo misterioso tu
potresti non esserci più e non potrei sopportarlo…) ma sento la tua presenza, i tuoi occhi su me e
vivo adesso e ogni giorno il nostro amore, pieno di quelle altre dissolvenze, quelle di cui il cinema
non è capace. Io ti salvo. Voglio crederlo. Devo crederlo per continuare a vivere, o a non-vivere, se
preferisci. E non so nemmeno se lui, l’altro, il mio altro, io insomma sia tornato a prenderti…
Se ben lo conosco posso dire con certezza che lui non c’è, che lui è fuggito e non ritornerà.
Che io invece resisterò sempre; e solo questo ci salva entrambi perché sempre mi alzo e parto al
mattino alla ricerca di ciò che voglio donarti e che ogni giorno ti porgo
La mia rosa purpurea strappata al deserto del mitico Cairo.

mercoledì 17 febbraio 2010

Il Nuovo Libro di Jonathan Safran Foer


Jonathan Safran Foer, da piccolo, trascorreva il sabato e la domenica con sua nonna. Quando arrivava, lei lo sollevava per aria stringendolo in un forte abbraccio, e lo stesso faceva quando andava via. Ma non era solo affetto, il suo: dietro c’era la preoccupazione costante di sapere che il nipote avesse mangiato a sufficienza. La preoccupazione di chi è quasi morto di fame durante la guerra, ma è stato capace di rifiutare della carne di maiale che l’avrebbe tenuto in vita, perché non era cibo kosher, perché «se niente importa, non c’è niente da salvare». Il cibo per lei non è solo cibo, è «terrore, dignità, gratitudine, vendetta, gioia, umiliazione, religione, storia e, ovviamente, amore».
Una volta diventato padre, Foer ripensa a questo insegnamento e inizia a interrogarsi su cosa sia la carne, perché nutrire suo figlio non è come nutrire se stesso, è più importante. Questo libro è il frutto di un’indagine durata quasi tre anni che l’ha portato negli allevamenti intensivi, visitati anche nel cuore della notte, che l’ha spinto a raccontare le violenze sugli animali e i venefici trattamenti a base di farmaci che devono subire, a descrivere come vengono uccisi per diventare il nostro cibo quotidiano.

I GIUDIZI
"Gli orrori quotidiani dell'allevamento intensivo sono raccontati in modo così vivido... che chiunque, dopo aver letto il libro di Foer, continuasse a consumare i prodotti industriali dovrebbe essere senza cuore o senza raziocinio."
J.M. Coetzee
"L'appello di Foer per un vegetarianismo di tipo etico è molto coinvolgente... Una solida e sconfortante indagine, con una forza di persuasione che scuoterà tutti coloro che mangiano carne."
Kirkus Reviews

mercoledì 3 febbraio 2010

L'Aurora, il mio ristorante preferito a NY

Oggi vi parlo dell'Aurora.

Non in senso poetico astronomico eh. Ma dell'Aurora come ristorante. IL Ristorante. Il mio ristorante preferito a NY. Ci sono da fare alcune considerazioni:

1) L'Aurora è un ristorante italiano ma con quel tocco newyorkese che fa la differenza
2) L'Aurora è a Soho, anche se adesso ha aperto una sede anche nella bellissima Brooklyn (dove abita Safran Foer)
3) All'Aurora ho cenato più e più volte con un architetto e designer come ce ne sono pochi al mondo (che guarda caso è il mio compagno di vita :)

Ora non posso che invitarvi a provarlo. Un ristorante così non si può spiegare. Vi basti sapere che il menù cambia ogni giorno, che sul tavolo troverete una candela in un sacchettino di carta tipo quella dove avvolgono il pane, che i dolci sono tra le cose più belle e buone che io abbia mai assaporato al mondo.

Per saperne di più curiosate qui www.auroraristorante.com

sabato 30 gennaio 2010

THE HIGH LINE

Per chi non lo conoscesse, per chi volesse curiosarem respirare aria buona e far sorgere il verde dai quadrati di cemento...

http://www.thehighline.org/

Ne vale davvero la pena :)

In verde

martedì 26 gennaio 2010

MY COM FACTORY è online!

Oggi presentiamo...

http://www.mycomfactory.com/

Per adesso è solo l'home page... ma stiamo arrivando!!!

venerdì 22 gennaio 2010

E' tempo di Apple Pie

Arriva il week end e mi metto all’opera. E’ ora di Apple Pie. Sì perché cucinare è come fare un progetto, come coltivare un giardino: ci vuole passione, pazienza e voglia di fare. Ci vuole innanzitutto il desiderio di creare qualcosa di bello e ben fatto.

Ovviamente la gioia del mio fidanzato aumenta se tutti questi buoni propositi si materializzano in un Apple Pie calda di forno.

E allora: pronti, via. Inizio preparando l’impasto con farina, un pizzico di sale, burro e un bicchiere di acqua ghiacciata e il burro.

Creata la pallina di impasto la avvolgo ben bene con della pellicola trasparente e la ripongo in frigorifero a riposare almeno una quarantina di minuti. Con le quantità di farina son stata abbondande perché i forum dicevano che quasi sempre mancava l’impasto per la copertura totale dell’Apple Pie! E un Apple Pie senza copertura… non è un Apple Pie.

A questo punto passo al ripieno. Sbuccio le mele e le taglio a spicchi sottili. Le metto in una ciotola e aggiungo il succo di un limone e la sua buccia grattugiata. A seguire: farina, un pizzico di sale, cannella, vaniglia, noce moscata, una tazza di zucchero. E mescolo il tutto. Vien fuori una vera delizia: la mangerei anche cruda.

Passati i 40 minuti, riprendo la pasta dal frigo e la divido in due palline simili per dimensioni. Stendo una pallina per bene e la uso per foderare la mia tortiera. Posiziono il ripieno arricchito di tocchetti di burro, stendo la seconda pallina e ricopro la mia Apple Pie che all’occorrenza decoro a piacere con la pasta avanzata (io ho fatto delle foglioline stilizzate, molto stilizzate :) I bordi li schiaccio per bene con una forchetta.

A questo punto è l’ora del forno, preriscaldato a 200 e abbassato a 180 e a 170 durante la cottura.

E l’Apple Pie è cotta quando è dorata in superficie ma ben resistente anche sul fondo.

Very Delicious: servita con una pallina di gelato alla vaniglia 

mercoledì 20 gennaio 2010

La curiosità: insubordinazione allo stato puro




Questo mio antico scritto è dedicato a Roberto Camerani

Ex deportato, amico e maestro

Per cui la vita nonostante tutto-

“l’è bella”



Devo chiedervi ora di fare un salto indietro nel tempo e di immaginarvi in un posto diverso da questa sala.

E’ il 10 maggio 1933. Siamo a Berlino nella Bebel platz, poco distante dai più importanti musei tedeschi. Ma siamo anche a Francoforte, ad Amburgo, ad Heidelberg.

In questo momento i libri stanno bruciando.

Nelle città universitarie più importanti d’Europa, gli studenti, la gente comune, i passanti anche, stanno bruciando i libri.

Sono libri diversi: di oppositori politici, di “intellettuali comunisti”, per esempio. Sono libri che non corrispondono allo spirito tedesco.

E sono i libri di autori ebrei. Il tentativo nazista di annientare il popolo del libro parte, per l’appunto, dalla distruzione dei libri. In questo momento bruciano –metaforicamente e non- Freud, Einstein, Stefan Zweig, Schnitzler, Meyrink. Nella Germania nazista bruciano almeno cento milioni di libri.

E drammaticamente, come intuì il poeta, dove si bruciano i libri si finisce- prima o poi- per bruciare anche gli uomini.

Se la cancellazione del popolo ebraico -dell’Altro, del Diverso- comincia simbolicamente in questo 10 maggio 1933 in cui gli strumenti con cui si tramanda la memoria- i libri- vengono annientati, allora recuperare le storie di quei libri, la conoscenza che essi tramandavano, è un primo passo verso il recupero della memoria. Andare in archivio, scartabellare, spulciare, spiare, significa ricostruire qualcosa che rischiava di andare perduto.

Fabio prima vi parlava dell’importanza dell’oblio. Le sue parole sono tanto più sconvolgenti in questa giornata dedicata al ricordo. Ma esse sono profondamente vere. Sì, perché nessuno di noi potrebbe in fondo sopravvivere in questa sala (anzi in questa Bebel Platz in cui ci troviamo adesso, di fronte al fumo del rogo dei libri), nessuno di noi potrebbe sopravvivere se ricordasse integralmente, in ogni istante, in ogni luogo della sua mente e del suo corpo, lo sterminio di ebrei, omosessuali, rom, testimoni di geova e oppostori politici assassinati nei campi di sterminio nazisti. Nessuno di noi sopravviverebbe avendo costantemente sotto gli occhi l’ingresso di Auschwitz e ciò che esso rappresenta.

Eppure, allo stesso tempo, questa dimenticanza temporanea, la dimenticanza parziale che ci fa sopravvivere e agire, non può che essere il frutto di una memoria ancora più profonda. Il tentativo della Germania del dopoguerra di rimuovere quanto successo, di non portare il lutto ma di fare sbrigativamente ammenda, ha portato infatti a conseguenze disastrose.

L’oblio volontario diventa, in questo caso, crimine gravissimo, perché riduce la memoria a ricordo posticcio. Quanto è accaduto esiste sempre: per quanto si tenti di rimuoverlo, esso ritorna costantemente. In un racconto di Kafka, un padre di famiglia si confronta con un cruccio atroce: nella sua casa vive un essere senza forma precisa, senza precisa identità. Odradek, così si chiama, a volte sparisce ma immancabilmente fa poi ritorno alla sua casa. Odradek è -in Kafka e per noi altri- il dimenticato che di continuo si affaccia alle nostre menti, per quanto in forma distorta e irriconoscibile. Finchè non prendiamo coscienza di lui, esso rimarrà il nostro cruccio, rimarrà qualcosa con cui non abbiamo ancora fatto i conti. Odradek, infatti, non potrà mai morire. La sua esistenza continuerà anche quando avrà fine la nostra. E’ come un sacco di iuta con tutto ciò che ci appartiene. Spazzatura compresa.

Molti figli di nazisti si sono tolti la vita, molti altri sono diventati naziskin; in pochi hanno potuto elaborare una via alternativa: in entrambi i casi Odradek ha distrutto le loro esistenze e quelle di altri. A volte, del resto, il ricordo delle vittime dei campi di sterminio ha dimostrato la propria insostenibilità in suicidi avvenuti molti anni dopo la fine della guerra: Jean Améry si è tolto la vita in una camera d’albergo di Salisburgo nel 1978, Primo Levi ha messo fine ai suoi giorni nove anni dopo nel suo appartamento torinese.

Per sopravvivere dunque, è vero, bisogna lasciarsi andare a brevi dimenticanze. Mai però, mai possiamo dimenticarci di queste dimenticanze, mai possiamo scordarci che per vivere abbiamo messo da parte qualcosa per alcuni istanti; mai dobbiamo dimenticare di aver dimenticato. E allora fare i conti col passato significa anche lasciare che esso ci tocchi nell’intimo, come nell’intimo ci hanno toccato le scoperte dell’archivio. Lasciare che le vite e le storie degli altri deformino le nostre, che sollecitino in noi riflessioni, raccoglimento, intuizioni. In qualche modo, dobbiamo essere in grado di prendere Odradek per mano, di guardarlo con attenzione, di farlo nostro e di capirne la deformazione. Prendere la sua “non forma” di dimenticato e renderlo un Odradek nuovo, una forma nuova, una nostra personale forma di resistenza non solo ai crimini nazisti, ma ad ogni ingiustizia compiuta contro chiunque in qualunque parte del mondo.

Citare ad uno ad uno i nomi dei sei milioni morti nei campi e citare sempre uno a uno i cento milioni di libri bruciati nei roghi nazisti.

Più semplicemente, citare i nomi dei ragazzi espulsi dal Regio Liceo Ginnasio Cesare Beccaria dopo averli recuperati nei sotterranei di via Linneo.

Usare la cultura, la conoscenza, la curiosità come forma primaria di resistenza.

Chi nemmeno sa di avere Odradek nella propria casa, sarà più facilmente vittima delle distorsioni della storia, delle invenzioni revisioniste, delle parole prive di fondamento. Chi invece con Odradek fa due chiacchiere, non sarà altrettanto abbindolabile. Come sostiene Nabokov, davvero La curiosità è insubordinazione allo stato puro. Del resto, nessun libro di storia potrà mai raccontarci cosa si prova mentre si varca la soglia di una camera a gas. E’ qui allora che deve concentrarsi la nostra capacità di identificarci con altri esseri umani. E’ qui che bisognerebbe utilizzare, nel senso più profondo, la nostra immaginazione e non nella falsificazione delle prove. Solo uno stupido oggi potrebbe negare l’esistenza dei campi di sterminio. E allora questa nostra immaginazione, che ci ha portato poco fa in Bebel Platz e che ci porta ora di fronte alle porte di Auschwitz, può essere sollecitata a maggior ragione da quei cento milioni di libri bruciati e dalle loro storie “perché nulla difende l’essere vivente contro la stupidità dei pregiudizi, della xenofobia, delle ottusità, dei nazionalismi discriminatori, meglio dell’ininterrotta costante della grande letteratura: l’uguaglianza essenziale delle donne e degli uomini a tutte le latitudini e l’ingiustizia rappresentata dallo stabilire tra loro forme di discriminazione, dipendenza, sfruttamento” (Vargas Llosa).

Rivendicare il potere della letteratura e dell’immaginazione significa, dunque, rivendicare un diritto primario dell’essere umano, un diritto di cui lo stesso Primo Levi si riappropria nel bel mezzo del campo quando recita Dante per un compagno di prigionia.



Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca



Considerate la vostra semenza

Fatti non foste a viver come bruti

ma per seguir virtute e conoscenza



Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.



Leggere Dante significa in quel momento recuperare la propria identità di uomo, essere per un attimo fuori dal campo di sterminio, potere per una manciata di secondi respirare ancora da uomo libero. Alcuni libri servono a questo: sono fatti per respirare. Per un momento ci permettono di cambiare le cose e di farci perciò intuire che esse possono andare diversamente.



Il finale di Buongiorno notte, il film di Bellocchio sul rapimento di Moro, ci mostra Moro che se ne torna a casa libero. Le ultime pagine di un bellissimo romanzo di Safran Foer Molto forte, incredibilmente vicino riproducono- al contrario però- i fotogrammi di un uomo che si getta dalle torri gemelle la mattina dell’11 settembre. Se le fate scorrere velocemente quell’uomo torna di sopra. Si salva, come Moro.

Quello che queste opere d’arte vogliono comunicarci non è un falso storico. Sappiamo benissimo che Moro venne ammazzato e abbandonato in una Renault rossa in via Caetani. Sappiamo benissimo che quell’uomo si buttò giù dalla torre e finì di sotto.

Quello che ci dicono è che la prossima volta Moro potrebbe salvarsi, dovrebbe se -come uomini- abbiamo capito qualcosa. E dicono che per aerei conficcati in grossi torri, no: non ci deve essere una prossima volta.

Che dobbiamo impedire che in futuro ci siano nuovi campi di sterminio.

In questo senso, credo, Fassbinder sostiene che l’arte libera la testa. Essa ci sollecita a pensare, a cambiare il futuro, a deformarlo, cioè a dargli una forma nuova rispetto a quella che il passato ha già drammaticamente avuto.

Per questo penso che sì, anche dopo Auschwitz si possa e si debba fare arte, per quanto in forma diversa, naturalmente. L’arte è espressione del nostro essere umani, del nostro desiderio di tulipani oltre che di pane. L’arte di Dante rende l’anima a Levi in una situazione estrema, molto più di quanto avrebbe potuto fare una tavola imbandita.

E allora mi sembra che il monumento alle vittime della Shoah del Cimitero Monumentale di Milano sia tanto più significativo quanto più scheletrico e spoglio si presenti ai nostri occhi. Come a dire: siccome di questa atrocità non potrei parlare, in quanto opera d’arte, con mezzi tradizionali, uso un linguaggio diverso, linguaggio di sintesi assoluta e di schiettezza estrema. Ciò che evoco è molto più forte di ciò che potrei mimeticamente rappresentare.

Allo stesso modo il Museo Ebraico di Berlino di Daniel Libeskind racconta, nella sua deformazione di edificio contorto e privo d’ingresso, una storia che solo noi con la nostra mente di spettatori e la nostra sensibilità di esseri umani possiamo comprendere e completare.



Per concludere mi piacerebbe leggere una breve lettera di una studentessa di Teheran che scrive



“La mia fantasia ricorrente è che alla Carta dei Diritti dell’Uomo venga aggiunta la voce: diritto all’immaginazione. Ormai mi sono convinta che la vera democrazia non può esistere senza la libertà dell’immaginazione e il diritto di usufruire liberamente delle opere di fantasia. Per vivere una vita vera, completa, bisogna avere la possibilità di dar forma e espressione ai propri mondi privati, ai propri sogni, pensieri, desideri; bisogna che il tuo mondo privato possa sempre comunicare col mondo di tutti. Altrimenti come facciamo a sapere che siamo esistiti?”.



Io sono convinta che se sapremo impedire altri roghi di libri e di idee, altri roghi di pensieri e culture, in nessun modo e in nessun luogo accetteremo più che si brucino esseri umani, che si cancelli il diverso, il non allineato.

Sherazade in fondo salva la propria vita e quella delle altre donne facendo leva sul diritto all’immaginazione e al racconto, no?

martedì 12 gennaio 2010

E' nata My Com Factory

E' nata My Com Factory ovverossia:
My Community Factory.
La mia fabbrica comune. La vostra.
Chi ha già letto queste pagine lo sa: il nome si ispira ai giardini di New York.
My Com Factory è uno spazio mentale e concreto allo stesso tempo. Uno spazio di cui, come per i community garden, ci riappropriamo oggi per farne un luogo di creatività e di espressività, un luogo di costruzione in cui dar corpo alle proprie personali interpretazioni del mondo e alla rappresentazione che di esso vogliamo dare.
Se un tempo per dar luogo al proprio modo di essere si aveva bisogno di “una stanza tutta per sé” , oggi la nostra vita ha un senso se si spinge oltre le mura di quella stanza inondando l’intorno di tasselli di pensiero quotidiano.
My Community Factory si prefigge dunque progetti “a regola d’arte”, progetti amati e fonte di soddisfazione per chi li realizza e per i suoi committenti.


E si occupa di Comunicazione culturale e aziendale, Strategie di comunicazione, Relazioni pubbliche, Relazioni con la stampa, Organizzazione di eventi e conferenze stampa.


Per chi volesse saperne di più: luana.solla@mycomfactory.com oppure luana@delabo.it.


lunedì 11 gennaio 2010

NEI GHETTI D´ITALIA QUESTO NON È UN UOMO di Adriano Sofri

Di nuovo, considerate di nuovo
Se questo è un uomo,
Come un rospo a gennaio,
Che si avvia quando è buio e nebbia
E torna quando è nebbia e buio,
Che stramazza a un ciglio di strada,
Odora di kiwi e arance di Natale,
Conosce tre lingue e non ne parla nessuna,
Che contende ai topi la sua cena,
Che ha due ciabatte di scorta,
Una domanda d'asilo,
Una laurea in ingegneria, una fotografia,
E le nasconde sotto i cartoni,
E dorme sui cartoni della Rognetta,
Sotto un tetto d´amianto,
O senza tetto,
Fa il fuoco con la monnezza,
Che se ne sta al posto suo,
In nessun posto,
E se ne sbuca, dopo il tiro a segno,“Ha sbagliato!”,
Certo che ha sbagliato,
L´Uomo Nero Della miseria nera,
Del lavoro nero, e da Milano,
Per l´elemosina di un´attenuante
Scrivono grande: NEGRO,
Scartato da un caporale,
Sputato da un povero cristo locale,
Picchiato dai suoi padroni,
Braccato dai loro cani,
Che invidia i vostri cani,
Che invidia la galera(Un buon posto per impiccarsi)
Che piscia coi cani,
Che azzanna i cani senza padrone,
Che vive tra un No e un No,
Tra un Comune commissariato per mafia
E un Centro di Ultima Accoglienza,
E quando muore, una colletta
Dei suoi fratelli a un euro all´ora
Lo rimanda oltre il mare, oltre il deserto
Alla sua terra - “A quel paese!”
Meditate che questo è stato,
Che questo è ora,
Che Stato è questo,
Rileggete i vostri saggetti sul Problema
Voi che adottate a distanza
Di sicurezza, in Congo, in Guatemala,
E scrivete al calduccio, né di qua né di là,
Né bontà, roba da Caritas,
né Brutalità, roba da affari interni,
Tiepidi, come una berretta da notte,
E distogliete gli occhi da questa
Che non è una donna
Da questo che non è un uomo
Che non ha una donna
E i figli, se ha figli, sono distanti,
E pregate di nuovo che i vostri nati
Non torcano il viso da voi.

La Repubblica" del 10.01.2010