sabato 17 febbraio 2024

Claudette Colvin, Marzo 1955. Montgomery, Alabama. Al MEET CENTER di Milano

Marzo 1955, Montgomery, Alabama.

Non cede il posto in autobus a una donna bianca.
E no, non è Rosa Parks.
Lei è Claudette Colvin e ha 15 anni.
E oggi ho incontrato il suo fantasma.



L’installazione del Meet di Milano arriva dal Pompidou ed è passato dal Tribeca Film Festival. Ma prima ha corso per i campi di cotone, tra negozi di scarpe in cui ai neri non è consentito indossarle (se lo facessero nessuno poi le comprerebbe più), tra tribunali feroci e imperturbabili e chiese prorompenti di canti e invocazioni (quando mi siedo e mi giro eccoli tutti dietro di me i fedeli a cantare, i fedeli a esultare). Ci sono Martin Luther King e Rosa Parks, anche.




Ma soprattutto ci sei tu, Claudette, che ci cammini accanto, che ci siedi vicino (a quel ragazzo spigoloso appoggi quasi la testa sulle gambe quando ti ranicchi e lui ti guarda irrigidito e stupito e poi prova a sfiorarti finché ti scomponi in pixel colorati). Poi arrivano il vento che ci travolge durante la pioggia, gli autobus che si svuotano per il grande boicottaggio di dicembre, lo strazio di Strange Fruit, l’allucinazione dei membri del Ku Klux Klan a volti scoperti, tranquilli per strada a fumare sigarette. Dice la voce che ci guida che gli afroamericani in quei giorni col boicottaggio compiono un gesto rivoluzionario: su quei bus iniziano ad “affermarsi con la forza dell’assenza”.




Non c’è frase più azzeccata per descrivere i 30 minuti vissuti in questo “Noire”: con la sua assenza Claudette è qui. E ce l’ha fatta, nonostante tutto (e oggi è una fantastica signora dallo sguardo dirompente che - lo sa benissimo - nel silenzio ha cambiato la storia e fatto la rivoluzione con tre parole ripetute al poliziotto che la arrestava: “io sono una persona”. Non le serviva altro).
Grazie Meet Center e Maria Grazia Mattei, che fate esplodere il potere delle tecnologie mettendole al servizio di quel che il corpo sa sentire.





sabato 13 gennaio 2024

Perfect Days - Wim Wenders, il Giappone e il mondo che abitiamo

 A olfatto (già solo guardando la notturna locandina e ancor prima di vedere il trailer) Perfect Days era il film che cercavo per iniziare questo nuovo anno. Mi avrebbe fatto dono, mi dicevo, di uno spazio pacificato. Ho preferito non leggere recensioni prima di averlo visto: intuivo che mi avrebbe parlato da solo e preferivo lo facesse direttamente, senza intermediari (gli articoli li ho poi cercati e letti e ingoiati tutti – o quasi – ieri sera, uno più bello dell’altro, ognuno con un taglio diverso e un’attenzione a un pezzetto diverso: la musica, l’architettura, la luce, il ritmo, la fotografia). Vedere Wenders ieri al cinema (una sala pienissima, una sensazione bellissima) è stato come far yoga per due ore, seduta al buio, immobile, concentrata. Qualcuno ha detto che Hirayama è felice perché ha cancellato i suoi desideri. Per me no, anzi. Hirayama ha avuto una vita fatta di gioie ma anche di dolori (ce lo svela l’abbraccio con la sorella e ancor più la scena finale che è qualcosa da scompigliare le viscere e farti riprendere a respirare solo parecchio dopo i titoli di coda). Ma la sua felicità, il suo equilibrio, la sua spiritualità li ha trovati in una ritualità quotidiana che è lo scheletro che ci regge in piedi tutti, anche quando non ce ne accorgiamo. Sta sotto il flusso delle cose ordinarie e straordinarie, ci tiene in piedi quando cadremmo, ci spinge a sinistra quando ci sbilanciamo a destra. Non è solo la cura giapponese del bello (anche nelle toilette), non è l’ordine, non è nemmeno il collezionismo, credo. È l’abituarsi a uscire dall’abitudine. L’abituarsi a guardare quello che se no sfioriamo distratti, il darsi da soli delle regole (le musicassette le mette nello stereo in partenza, ma poi preme play solo dopo un certo pezzo di strada) che diventano riti e perimetri di un tappetino dentro cui facciamo esperienza di qualunque cosa ci passi intorno. Hirayama è presente a se stesso, è vivo, ama quel che fa, ma non perché lui sia il suo lavoro ma, viceversa, perché quel lavoro lui lo trasforma in una parte di sè e lo rende altissimo, elegantissimo, pacificatore. E non credo che questo sia tanto un elogio del piccolo o dell’umile, che forse sarebbe un po’ scontato, un po’ già visto. È l’intuire che quando parliamo di piccolo o grande, di lavoro prestigioso o di lavoro umile, di autore grande (Faulkner) o di autrice che non conoscono in molti (Aya Koda), applichiamo delle etichette: lasciamo che qualcuno ci dica dove e come guardare. Ma Hirayama no, lui guarda come vuole guardare. Lui fotografa come vuole fotografare. Ha il suo, personalissimo, modo. E ci invita a non fraintendere. Il suo non è un accontentarsi. Nono, perché le foto non riuscite Hirayama le strappa a metà e le getta via senza rimpianti. Semplicemente, Hirayama osserva a modo suo. Vive di immanenza e di connessioni più nascoste e meno visibili, come giocare a tris a distanza con un foglietto da scambiare nella fessura di un muro. E lo fa solo ora, dopo una vita diversa di cui non ci è dato sapere, se non in quello sguardo finale, in quel racconto di un volto dove c’è dentro tutto e che ci permette di intuire quanto basta. E di andarcene in giro, una volta usciti dalla sala, con un’attenzione tutta nuova verso quello che siamo, verso il mondo che abitiamo, verso i giorni perfetti e imperfetti che attraversiamo.




giovedì 4 gennaio 2024

Bergen, la regina dei fiordi

Quando abbiamo iniziato a studiare il viaggio a Oslo, pensavamo solo a qualche giorno tra parchi cittadini e musei allo scoperta di una capitale (e di un paese) che non conoscevamo. Sfoglia che ti risfoglia e cerca che ti ricerca, però, Bergen continuava a saltarmi fuori tra le dita. Certo, nel fantasticare che abitiamo avevamo spesso pensato di esplorare i fiordi norvegesi, ma era un’idea sicuramente estiva, che richiedeva più giorni e agio.



Eppero’ Bergen in inverno, Bergen ora, chiamava come un magnete, un po’ come era accaduto in Islanda per il Siglufjörður e le ragazze delle aringhe. Così, alla fine abbiamo scompigliato le cartine, riducendo i giorni a Oslo (amata, amatissima e assaporata in ogni esplorazione e sauna e mostra), per affrontare la traversata in treno di quasi sette ore che taglia a mezzo la Norvegia e arrivare qui, la meta -credo- cui questa volta eravamo davvero destinati. Dopo giorni in cui era tormentata da nubi e tempeste, Bergen - la città dei mercanti, dei pescatori, della vita dura, del mare attaccato alla montagna, dei merluzzi in ogni ordine e grado, delle casette in legno che bruciano in un istante e delle strade strette strette per ripararsi dal vento - Bergen ci ha accolti con cielo azzurro e giornata splendente. Anzi, più efficace: con sole giallo in mezzo a un accuweather che, da inizio mese, era un sudoku di fiocchi di neve e nuvoloni grigio scuro. Insomma, Bergen ci ha lasciati “entrare” e ci ha deliziati di luoghi tipici e deliziosi piatti locali che a Oslo (causa chiusure natalizie) non avevamo potuto trovare. Così, ieri la crociera sul fiordo si è spinta su su, finché ha dovuto fermarsi di fronte a una lastra di ghiaccio troppo spessa, senza arrivare alla destinazione finale, insomma, ma osservandola solo da lontano.




E pure questa è un’altra, tosta, lezione dell’inverno norvegese: non è detto che arriverai dove pensavi di arrivare. Se la natura e il meteo han deciso altrimenti, ti fermerai e capirai che qui (non altrove) stava la tua meta. O almeno ci sta ora. Domani si vedrà.
Come per noi, che siamo andati a Oslo perché, in fin dei conti, dovevamo innamorarci di Bergen. E ce ne siamo innamorati.




domenica 10 settembre 2023

Giornata della Cultura Ebraica

 Cose che, da non ebrea ma da studentessa di lingua e cultura ebraica, ho amato moltissimo di questa Giornata della Cultura Ebraica

-scoprire la sinagoga di Guastalla (luogo per tante ragioni amatissimo) assieme a Esther Nissim. E imparare che se è poco “decorata” è perché la spinta all’astrazione e alla sintesi e’ la vera rivoluzione dell’ebraismo (mentre il monoteismo esisteva ben da prima, come mostrano le diverse figure induiste che di divinità ne raccontano, nell’essere molteplici, una sola)
-in Italia la comunità ha scelto di cambiare il tema della Giornata. E, invece di parlare di memoria come stanno facendo nel resto d’Europa, ha parlato di bellezza perché ebraismo è molto più della sola Shoah
-ascoltare il Rabbino capo che racconta storielle dal Talmud e non può trattenersi dal ridere di gusto
-il fatto che ospiti speciali di oggi in Sinagoga sono i rappresentati della comunità islamica, perché non può esserci cultura senza fratellanza e differenza “per gareggiare in opere buone”, come spiega la sura V del Corano
-imparare che per “fare sinagoga” bastano una Torah e dieci ebrei, perché sinagoga è comunità e luogo di incontro, nulla di più (ed è cosa immensa)
-il cielo blu in facciata con echi moreschi (unica sezione sopravvissuta dell’antica sinagoga dopo i bombardamenti del ‘43) e le vetrate geniali del newyorchese Roger Selden
-scoprire che, se l’uomo in sinagoga deve indossare la kippah mentre la donna può decidere se coprirsi o meno il capo, è perché quel gesto - di cui l’uomo ha bisogno per riconoscere, in esteriore e in interiore, il divino e per portare lo sguardo alla sua interiorità e spiritualità - quel gesto, dicevamo, la donna lo ha insito in se’ perché la vita del di dentro fa già parte della sua essenza e della sua tensione
-ricevere in dono all’uscita un sacchettino di grano di Gerusalemme in vista di Rosh Hashana, il capodanno ebraico che cade tra pochissimi giorni (grano che ora corro a piantare).





giovedì 24 agosto 2023

Il New York Botanical Garden del Bronx

Il Giardino Botanico del Bronx è uno dei più rilucenti, rigogliosi, curati e amati che io abbia mai esplorato. Venti minuti da Grand Terminal, passando attraverso Harlem e le vie rinominate e dedicate a Martin Luther King e Malcom X, ti catapultano in uno spazio che non ti aspetteresti a così breve distanza dà Manhattan. Qui si trova l’unico degli antichi boschi che un tempo ricoprivano la città, dove i nativi cacciavano, vivevano, crescevano le proprie tribù.



Fondato nel 1891 dai botanici della Columbia University Nathaniel e Elizabeth Britton, il giardino deve a Elizabeth una cura speciale e al tempo inedita per le Native Plants, che lei adorava senza indugiare sul fascino facile di ciò che è esotico e lontano. E pure un’altra donna si è adoperata per il Giardino: Beatrix Ferrand, una delle prime al mondo a diventare architetto paesaggista in un’epoca in cui pochissime donne avevano impieghi tanto prestigiosi e impegnativi (suo anche l’intervento ai giardini della Casa Bianca).


Sui suoi disegni si basa il giardino delle rose (che ne contiene 650 varietà) poco lontano dal bosco delle magnolie e dalle querce più maestose. E poi ecco azalee e ninfee, l’arboretum delle conifere, i cedri, le perenni, le orchidee, i cactus, le palme, le emerocallidi, i lillà, ma pure il basilico, il prezzemolo e la salvia limone.




Per non dire del fatto che il Grocery e i negozietti tutto intorno hanno i prezzi migliori della città e, a due passi da qui, sta la vera Little Italy fatta di connazionali emigrati a New York a inizio Novecento che, ca va sans dire, hanno animato il quartiere di caffè, pizzerie e il nostro tipico baccano.





E siccome al Botanical Garden del Bronx ci siamo veramente sentiti circondati da piante paradisiache e aliene, aggiungo qualche altra foto qui a seguire. Son certa che nelle mattine novembrine milanesi poterle risfogliare equivarrà a una respirazione yogica completa, essi’.
Tutte le reazioni:
Edera Bolognesi, Manuela Piuri e altri 41





venerdì 7 luglio 2023

Nasce il podcast My Travelling Library. In viaggio con Virginia

Quando nel 1908 torna in Toscana con la sorella Vanessa e il cognato Clive, Virginia Woolf porta con sé “my travelling library”, una biblioteca viaggiante zeppa di classici compatti e leggeri. Il viaggio significa per lei anche lettura, in ogni circostanza. Del resto, quando si reca all’estero Virginia entra in uno stato di vigilanza passiva e lascia che i suoni e le immagini straniere le scorrano nella mente. Si comporta come una balena: l’acqua marina le attraversa la bocca e lei inghiotte tutta quella flora e quella fauna che diventeranno poi alimenti per la sua fantasia e la sua arte. Tornata a casa, arriveranno il momento della digestione e, quindi, della creazione. 



Il podcast "My Travelling Library. In viaggio con Virginia"  prende il via da qui. Per raccontare i luoghi e i viaggi attraverso gli scrittori, gli artisti, i filosofi, i personaggi stravaganti che, prima di noi, li hanno attraversati, vissuti, sperimentati. E ingoiati anche, come la balena Virginia. "Il Viaggio di Virginia" è il podcast del progetto "My Travelling Library". 

Ideato e raccontato da Luana Solla. Per seguire My Travelling Library su Instagram: @my_travelling_library.