venerdì 7 novembre 2014

Biblioteche, folletti e sedute spiritiche

Ieri sera l'ho trascorsa in uno dei luoghi che amo più al mondo: la biblioteca. Frequento questi spazi magici sin da quando ero bambina e a scuola mi consegnarono la famosa lista delle letture per le vacanze invernali. Così fu la volta del Canto di Natale e de Gli Occhi dell'Amaryllis, un volume Mondadori Junior che mi aprì gli occhi sul piacere immenso, impareggiabile e sensuale che leggere mi provocava. Da lì sono iniziate frequentazioni assidue, direi quasi settimanali: necessarie, imprescindibili, spesso rivoluzionarie. Andavo in biblioteca con mamma, poi coi compagni di basket, con le amiche, con mia sorella. Ma spesso anche da sola. E ne uscivo sempre carica di storie, curiosa e felice come poche altre volte nella vita. Ieri sera, dunque, mi è capitato, quasi per caso, di scoprire e di vivere una biblioteca che non conoscevo, quella di Paderno Dugnano. L'ha progettata, recuperando un antico opicificio tessile, Gae Aulenti regalando all'ex Tilane una funzionalià nuova, eppure capace di

portare con sé un pezzo di memoria autentica di ciò che un tempo quel luogo era stato. Erano le nove e presentavo, assieme alla bibliotecaria (la magnifica Laura Fusetti che ringrazio per la deliziosa accoglienza), ad alcune lettrici e ad un bravissimo musicista, il piacevolissimo libro di un amico, Sherlock Holmes. La Sfida degli Spettri. E' stata così l'occasione di fare due chiacchiere assieme a Luciano su tre personaggi decisamente affascinanti: il detective di Baker Street, naturalmente, ma anche e soprattutto Sir Arthur Conan Doyle e il grande Houdini. Nel libro infatti i tre si incontrano, si scontrano e si confrontano, proprio come accadde nella realtà. Medico e chirurgo affermato, infatti, nella seconda parte della sua vita Doyle si avvicinò all'occultismo e anzi ne divenne fermo sostenitore e portavoce. Conan (cresciuto tra i folletti e gli gnomi che popolavano le storie narrate da sua madre e i fogli riempiti di schizzi di suo padre, che verrà poi internato in manicomio) si avvicinò al paranormale pian piano, probabilmente mentre già scriveva le prime storie di Holmes.

Forse però fu il 1920 l'anno chiave di questa sua passione. Fu allora infatti che lo Strand Magazine pubblicò Fairies photographed - an epoch making event, l'articolo in cui Doyle difendeva con vigore l'onestà e l'autenticità delle fotografie con cui le piccole Elsa Wright e Frances Grittiths erano riuscite ad immortalare in un giardino di Cottingley delle affascinanti piccole fate. Doyle, inizialmente scettico, aveva incontrato le piccole e le loro famiglie e si era convinto della reale esistenza del Piccolo Popolo. Così come si era convinto della possibilità di comunicare con gli spiriti, attività cui del resto era dedita anche Lady Doyle, una medium all'epoca piuttosto nota. Ecco dunque: il papà di Holmes era completamente agli antipodi del suo personaggio, così razionale e deduttivo, così simile al prestigiatore Houdini, che per anni smascherò maghi truffaldini, sedute spiritiche con tavolini truccati e annessi guazzabugli. Eppure io penso che Houdini, proprio come Doyle di cui fu grande amico pur nei contrasti, nella vita dopo la morte avrebbe davvero voluto credere. Quanto meno per poter rincontrare l'amatissima madre, colei che per prima -nonostante la povertà e le difficoltà dell'infanzia a Budapest- aveva creduto in lui e, di fatto, nella sua "magia".

 La storia di Houdini ce la raccontano numerose biografie ma anche tanti film, come quello ormai mitico del 1953 con Tony Curtis e Janet Leight. Ma ancor più, secondo me, ci fa sentire sotto pelle questo immenso personaggio la mini serie con Adrien Brody uscita proprio quest'anno in USA. Ecco, di tutto questo abbiamo parlato ieri sera, tra letture (consigliatissimo anche Storie degli Spettri di Massimo Scotti) e brani di Mozart, interventi del pubblico e curiosità sugli spaghetti allo scoglio (perché naturalmente, per vie misteriose che non starò ad illustrare, eravamo arrivati alla Trattoria San Calogero di Vigata assieme a Montalbano). Così questa notte mi sono interrogata anche io su spettri e spiritismo, fate e folletti, libri e personaggi. E sono arrivata alla conclusione che Sherlock Holmes, Watson, Houdini, Conan Doyle e le fate di Elsa e Frances... tutto sommato siano vivi ancor oggi e anzi ieri sera siano stati a tutti gli effetti in biblioteca con noi, magari proprio grazie a Lady Doyle. O forse perché, come argomentò il South Wales Argus "Il giorno in cui uccideremo Babbo Natale con le statistiche, avremo condannato il nostro mondo glorioso a una profonda oscurità". 

Del resto lo avevano già intuito gli antichi quando scrissero Queste storie non accaddero mai, ma sono sempre. Anche senza medium. Solo grazie al potere delle storie, perché non ne esistono al mondo di più grandi.

martedì 29 luglio 2014

Dove si parla di lemuri, Veronese e antiche dimore

Questo week end mi sono messa a studiare il catalogo dedicato alle allegorie ritrovate di Veronese (scheda qui), pubblicato dall'editore d'arte per cui lavoro. Come tutte le ragazze curiose come scimmie, però, la mia attenzione è stata catturata da alcuni dettagli. Uno di carattere più artistico (ma lo devo approfondire per bene prima di parlarne) e uno più squisitamente narrativo, quello legato alla figura del lemure di nome Mah-Jongg, meglio noto al grande pubblico come Jongy. Ve lo presento qui sopra. La sinuosa bestiola ha vissuto in diversi paesi del mondo e persino ad Eltham Palace,


la residenza non lontana da Londra acquistata nel 1933 da Sir Stephen Courtauld e da sua moglie Virginia. Ma cosa ci faceva un lemure accanto al più giovane dei fratelli Courtauld e anzi proprio nel cuore della villa emblema di un sogno Art Deco? Jongy era stato acquistato da Harrods nel 1923 e donato a Stephen e alla sua consorte Ginie, di origini italiane, in occasione delle nozze dei due a Fiume. Si trattò di un regalo da cui la coppia non si sarebbe più separata: Jongy avrebbe avuto una sdraio personale sullo yacht di famiglia, una stanza tutta sua e persino un monumento funebre quando si sarebbe spento nel 1938, non potendo così accompagnare i "genitori" nelle loro residenze in Scozia e Rhodesia.
Così mi son messa a cercare qualche immagine di questa meravigliosa dimora, dove Jongy si destreggiava tra arredi realizzati con materiali pregiati (tra cui onice, acero e pioppio) e opere d'arte (ecco il collegamento col Veronese: proprio a Stephen e Ginie Courtauld appartenevano le copie delle tele di Los Angeles cui le due allegorie ritrovate a Villa San Remiglio a Pallanza si accompagnavano).
Lo possiamo immaginare Jongy. E possiamo immaginare il fascino esotico con cui vi si relazionavano i suoi proprietari, come fa -seppur con una scimmietta- la sempre eccellente Eileen Atkins in Upstairs Downstairs, la serie tv della BBC che cerca di farci sopportare la mancanza di Downtown Abbey. Del resto dobbiamo ammettere che Stephen e Ginie avevano sicuramente un gusto fine ed eclettico: Eltham Palace è un mix perfetto tra un castello medievale e tutta l'eleganza dell'Art Deco, in un girotondo delle muse che credo sarebbe piaciuto a William Morris. Era una donna molto decisa Ginie: determinata, ribelle, anticonformista, con un serpente tatuato sulla caviglia che si doveva di certo intravedere quando gli abiti da sera si facevano più sensuali. Stephen (fratello di quel Samuel che avrebbe avuto successo nel mercato della seta dando poi vita alla Courtauld Collection) era invece riservato e silenzioso. Eppure, credo, sensibile e attento come lo descrive Xavier Salomon. Aveva studiato scienze naturali e amava il cinema, le orchidee e le maioliche. Oltre all'alpinismo naturalmente (proprio a Courmayeur aveva conosciuto la sua Ginie). Decisamente Jongy deve essersi divertito tra cocktail e feste, incontri di lavoro e nuove opere d'arte e di design esposte nella grande casa. Si racconta che fosse un esserino delizioso, con un'unica inguaribile mania: quella di accogliere gli ospiti... aggredendoli (con la grazia di un lemure che vive ad Eltham Palace) alle cavaglie.

sabato 7 giugno 2014

Abbracciare Eddy

Conclusa l'ultima pagina sono rimasta così: con la voce spezzata e lo sguardo fisso a vagare davanti a me, a cercare un appiglio, che non c'era e che non avrei comunque potuto trovare.
Il Caso Eddy Bellegueule di Edouard Louis si legge senza fermarsi, alla ricerca di un lieto fine che in realtà non può arrivare. Perché Edouard racconta la violenza ben sapendo che non è finita. Nel piccolo paese in cui è cresciuto (non importa dove sia, è un paese che tutti noi conosciamo perché ci alberga dentro) il debole attacca il più debole in un perverso gioco di ruolo. E della violenza "subita" Eddy porterà sempre le tracce. Nella mente, nello spirito, nel corpo. Quell'aggettivo però, violenza "subita", va tra virgolette. Perché "non posso fare a meno di interrogarmi, anni dopo, sul significato della parola complicità, sulle frontiere che separano la complicità dalla partecipazione attiva, dall'innocenza, dall'indifferenza, dalla paura". 
Per questo è una denuncia il libro di Eddy, ma è anche un invito urlato, un'implorazione, un'esortazione a non lasciarsi trasportare dagli eventi. A non permettere agli altri di fare e di farci del male. In questo reportage di Canal Plus forse si riesce a capire meglio ciò che intendo dire: una videocamera invadente fruga tra le dediche che Eddy sta scrivendo ai suoi lettori. Lui si ferma, protende il braccio e allarga la mano "Non voglio che filmiate... ciò che scrivo alle persone è qualcosa di personale...".
Eddy ora dice basta. Alla violenza, all'invadenza, all'arroganza, al sistema. Il suo romanzo è di una forza impressionante e resta allo stesso tempo delicatissimo. A un certo punto, quando arriva ad Amiens (città della speranza, città del riscatto, città della rinascita) Eddy parla e pensa in un modo del tutto pasoliniano. E si chiede se in realtà il suo non sia un corpo borghese. Si chiede se non sia stato un aspetto "politico" e sociale più che la sessualità in sè a dividerlo dal resto.

E' sorprendente Eddy. Vorresti parlargli, conoscerlo, stringergli la mano. Il primo desiderio che hai quando leggi l'ultima pagina è solo quello di chiudere il libro e correre ad abbracciarlo.

Poi, però, capisci che in fondo anche quella sarebbe violenza. E pensi che no. Devi volergli bene da lontano, rispettando lo spazio e il corpo che gli appartengono. Pronto, quando lui lo vorrà, a stringerlo forte, a chiedergli perdono per ciò che gli hanno fatto e che gli abbiamo fatto.
A chiedergli perdono per ciò che ci facciamo tra noi. E allora sì, quando e se lui lo vorrà, potremo finalmente abbracciarci.

martedì 3 giugno 2014

Bibliotravel: la seducente Istanbul, tra Agatha Christie e Pamuk, Markaris e Virginia Woolf


Istanbul è da sempre una terra di confine dove Oriente e Occidente si fondono talvolta grazia, talvolta con furore. La mia esplorazione è iniziata nella zona di Beyoglu, assolutamente inaspettata e insolita. Un quartiere ricchissimo di vita, musica, negozi, ristoranti e pasticcerie (lì i dolci sono una vera arte, consigliatissimi i Lokum e i Baklava da gustare assieme a uno dei loro tè - si chiamano CHAI con la c dolce- che vengono serviti in bicchierini di vetro a forma di tulipano). La via intorno cui tutto ciò ruota è la Istikal Caddesi. Tutta quest'area, giù fino al Corno d'Oro, è nota anche come quartiere di Pera e di Galata. 














Qui un tempo stavano i genovesi che anche gli ottomani (quando invasero Costantinopoli nel 1453) decisero di lasciare quali referenti locali pur distruggendo tutte le fortificazioni che qui gli italiani avevano realizzato. L'unica cosa che fu salvata fu la bellissima Torre di Galata che, soprattutto la sera, è incredibilmente suggestiva e affascinante. Ciò premesso, arriviamo finalmente al dunque, ovvero alla sezione Bibliotravel che avevamo annunciato in questo post. Perché fu proprio qui che si stabilirono e vissero dall'Ottocento in poi gli occidentali: dai francesi ai tedeschi, dagli inglesi agli italiani. Per questo le case sembrano quelle del quartiere latino di Parigi: un misto di decorativismo, decadenza e bellezza. Sempre qui a Pera soggiornarono dunque Agatha Christie e Virginia Woolf, Flaubert e Loti, scrittori, artisti e viaggiatori. Spesso arrivavano in nave oppure con l'Orient Express e poi con graziose portantine venivano portati oltre al Corno d'Oro sino ai loro alloggi "all'occidentale". 

Proprio qui, dunque, Agatha Christie scrisse il suo Assassinio sull'Orient Express, composto nella camera 411 del Pera Palace Hotel. Fuori dalla stanza, mantenuta con molti degli arredi e degli oggetti dell'epoca, si trovano ancor oggi alcune teche dedicate al soggiorno della Christie a Istanbul. Tra essi spicca una curiosa chiave. Nel 1979 la Warner Bros. decise infatti di dedicare un film (con un'inquietante Vanessa Redgrave e un eccelso Dustin Hoffman) alla misteriosa scomparsa di Agatha Christie, che nel dicembre del 1926 era sparita riapparendo dopo 10 giorni, senza rivelare mai a nessuno cosa fosse accaduto in quel lasso di tempo. Per fare luce su quelle oscure circostanze (con una campagna di lancio del film che sarebbe rimasta nella storia) Warner Bros. chiese alla medium Tamara Rand di mettersi in contatto con Agatha. Proprio alla sensitiva la scrittrice avrebbe rivelato il luogo dove era nascosta la chiave del diario segreto in cui aveva raccontato quanto era accaduto in quei famosi 10 giorni. Inutile dirlo: la chiave fu ritrovata proprio nella stanza 411 del Pera Palace Hotel. Ma del diario, naturalmente, non c’erano tracce.


Anche Virgina Woolf scopre Istanbul nel corso dei suoi viaggi con Vanessa, Toby e Adrian. Si trattiene una manciata di giorni eppure ne avverte a pelle il mistero e scrive «Adesso per esempio c’è l’enigma di Santa Sofia; perché è la chiesa più criptica d’Europa? Perché diventa sempre più bella e misteriosa via via che la si conosce – o che se ne conosce l’involucro? Bisogna iniziare dal principio e confessare che l’enigma sono i turchi stessi». Lo racconta nei suoi Diari di viaggio, editi in Italia da Mattioli.

Passato il Corno d'Oro attraversando il ponte di Galata, si arriva nell'antica Costantinopoli dove si svelano le meraviglie di Santa Sofia, che mozza il fiato, l'eleganza della Moschea Blu e la ricchezza del palazzo imperiale detto Topkapi. Ceramiche, mosaici, fontane, padiglioni, decorazioni, oggettistica, hammam, harem, bazar. Tutto è meraviglia. Compresi i sarcofagi impressionanti conservati al Museo Archeologico o la suggestiva cisterna della Basilica, a pochi passi da Santa Sofia. Tutte queste strade si possono percorrere in solitudine. Oppure si può scegliere di esplorarle in compagnia di Loti, Flaubert, Concteau, Lamartine, Andersen, Nerval... Un'antologia straordinaria ha raccolto questi scrittori intorno a un tavolo, come sul ponte di un'unica nave, per un viaggio che si legge come un solo romanzo, ma anche come una collezione di quadri riuniti in un unico museo vivente. Si tratta del Romanzo di Costantinopoli. Guida letteraria alla Roma d'Oriente di Silvia Ronchey e Tommaso Braccini.

Il "perfetto tour vittoriano per Costantinopoli, come lo definisce Jason Goodwin, di cui diremo tra poco, ce lo regala un italiano. E' Edmondo De Amicis che nel 1875 come corrispondente dell'Illustrazione Italiana racconta la città al suo tramonto, tra sultani e eunuchi, concubine e Palazzo Topkapi, Santa Sofia, Gran Bazar Corno d’ Oro...

"È una bellezza universale e sovrana, dinanzi alla quale il poeta e l’archeologo, l’ambasciatore e il negoziante, la principessa e il marinaio, il figlio del  settentrione e il figlio del mezzogiorno, tutti hanno messo un grido di maraviglia. È il più  bel luogo della terra a giudizio di tutta la terra".
Giusto quarant'anni prima del viaggio di De Amicis, lo storico e viaggiatore Jason Goodwin, studioso di storia bizantina, ambienta una fortunata serie di gialli che vede protagonista un detective insolito e raffinato, l'eunuco di corte Yashim. Un uomo affascinante e intelligente che adora la letteratura francese così come la buona cucina. Sarà lui a indagare e districare matasse intrigate in un impero
ottomano ormai decadente.

Tra una tappa e l'altra, consigliatissime a Istanbul delle pause gastronomiche. La cucina turca coi suoi meze, piccoli assaggi diversi da gustare col loro pane tipico e con accompagnamento di salse e salsine locali, rappresentano proprio il mio ideale di cucina. Per mangiare queste delizie ci si può recare nelle cosiddette Meyhane (le osterie turche). I formaggi, i peperoni, le melanzane, le olive… tutto è delizioso come racconta anche Pedro Markaris (che a Istanbul è nato) nel suo delicatissimo La Balia, edito da Bompiani. Si tratta di un giallo in cui l'ispettore Charitos indaga sulla scomparsa della balia Maria che lascia tracce del suo passaggio tra cadaveri e... squisite torte al formaggio (dette "tyropita"). Oltre a meze e torte al formaggio, certamente un viaggio a Istanbul comprende per i non vegetariani l'assaggio dell'eccellente kebab locale. Da provare assolutamente le spremute di arancia ma soprattutto quelle di melograno: rosse, dolcissime e squisite. Fatte sul momento ti dissetano come poche altre al mondo. 

Tra le cose irrinunciabili di una visita a Istanbul c'è sicuramente la gita sul Bosforo. Sconsiglio di farla con i tour operator. Io con 3 lire turche (circa 1 euro) ho preso i battelli locali (che fungono da mezzi pubblici) e ho viaggiato sulle tre coste per circa 1 oretta. E' un'esperienza davvero toccante perché, come ti dicono gli stessi turchi, Istanbul va vista dal mare. Durante la navigazione vengono offerti tè e dolcetti locali (sempre per pochissime lire) mentre l'imbarcazione scivola sull'acqua costeggiando le tre rive punteggiate da moschee e palazzi, chiese e capanne, antiche case ottomane e rigogliosi giardini.

E poi naturalmente ci sono i libri del Nobel Pamuk, che ben ritraggono la vita e le sfumature della città ma forse ancor più i suoi legami con l'anima di chi scrive e di chi legge. Tra questi Istanbul è di certo un must, ma anche Il Mio nome è rosso, Il Museo dell'Innocenza (che poi -proprio a partire dal libro- si è trasformato in un Museo vero e proprio).


Di recente è uscito anche Rosso Istanbul di Ozpetek. Si legge rapido ma parla più dei temi cari al regista che della città nel suo intimo. Però quel profumo di polpette che si diffonde al mattino, come nelle Fate Ignoranti, ha sempre un che di caro e di familiare. Di quella famiglia che è composta di amici, compagni di strada e persone che sfioriamo. Le persone per cui vale la pena preparare polpette la domenica mattina. 

Quello a Istanbul, o forse a Bisanzio o forse ancora a Costantinopoli, è un viaggio eccezionale che rimane dentro a lungo e che si metabolizza pian piano, perché Istanbul -per come la vedo io- si lascia conoscere solo sulla lunga distanza e pretende dedizione, cura per il dettaglio e profonda attenzione.

  


lunedì 2 giugno 2014

Bibliotravel ovvero leggere dei luoghi in cui si viaggia (mentre si viaggia).

Ogni volta che mi trovo a pensare a un nuovo viaggio, mi assale la voglia di leggere romanzi, racconti, poesie che in qualche modo abbiano un legame coi posti che andrò a visitare. Non intendo semplici guide (sempre con me una Lonely Planet e poi una Touring, una Routard, una Rough Guide, a seconda della meta prescelta). Intendo proprio volumi di letteratura. Forse perché son convinta che spesso l'immaginato dica di più del reale circa i luoghi e gli spazi che ci circondano. Per questo ho deciso di inaugurare su questo blog una rubrica simile a quella che, nei miei quasi 6 anni da libraia, utilizzavo per indirizzare i lettori curiosi come me. Non so bene se partire dalle ultime mete che ho esplorato (Giappone e Istanbul) o dalle prossime. Lo deciderò in questi giorni. Intanto un primo estemporaneo consiglio per tutti gli amanti del Sol Levante. L'appassionato, struggente e violento Mishima del Padiglione d'Oro, una di quelle letture che ti fanno sentire davvero cosa sia il magnifico tempio Kinkaku-ji di Kyoto. Ovviamente tutti i suggerimenti e gli spunti saranno i benvenuti!







venerdì 30 maggio 2014

Alma Mahler, tra fughe, lieder, passioni e bambole.

Negli ultimi mesi, nei miei girovagare tra libri, articoli e mostre d'arte, mi sono scontrata, imbattuta e innamorata della figura di Alma Mahler (nata Schindler) e del mondo che si porta dietro. Creatura bellissima e seducente, Alma (1879-1964), ancora ragazza, fa perdere la testa a Gustav Klimt strappandogli (pare) un appassionato bacio nientepocodimeno che sulla romantica laguna veneziana. Figlia di pittore, Alma ha conosciuto Klimt attraverso il patrigno Carl Moll, protagonista della Secessione Viennese. La "relazione" tra i due ha fatto subito scandalo. E di questo l'epistolario di Klimt dà una drammatica testimonianza di prima mano. Qualche anno dopo, comunque, nuova passione e nuovo amore: Alma sposa Gustav Mahler, di vent'anni più vecchio. Accanto a lui Alma tenta la carriera di compositrice, ma senza troppo successo. Sino alla morte di Gustav, Alma non manca di essergli infedele. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana. E' una donna eccezionalmente piena di fascino, non solo per lo sguardo misterioso e per la sinuosità del suo corpo, ma anche per un'intelligenza brillante e ribelle che la fa essere famosa in tutta Vienna. Nel frattempo lei e Gustav hanno due figlie (la prima muore ancora bimba di difterite) e vivono per un certo tempo a New York. Tra i tanti amanti di Alma in quel periodo ne spicca però uno in particolare, Walter Gropius, padrino e mentore del Bauhaus. Sarà proprio una lettera di Gropius a capitare per errore tra le mani di Mahler che ne rimarrà sconvolto. Cominceranno così le sedute del compositore presso il medico più noto della Vienna del tempo, Herr Sigmund Freud, sedute che non saranno però risolutive. Nel 1911, comunque, Mahler viene a mancare e Alma resta vedova. Potrebbe
aver subito carta bianca per riunirsi a Gropius, ma questo non accadrà prima del 1915 perché nel frattempo nuovi amori entreranno nella vita di Alma. Si tratterà di un compositore prima, di un biologo
poi e infine di un nuovo pittore, Oscar Kokoschka.
E nuovamente sarà proprio Carl Moll a fare da galeotto perché commissionerà a Kokoschka un ritratto. Qui la lista da capogiro degli amanti deve trovare una sua sosta. Perché nell'amore di Oscar per Alma si cela probabilmente il germe della follia come in nessun'altra delle storie sin qui raccontate. 
La passione tra i due sarà bruciante, e questo non è insolito, ma quando terminerà lascerà il selvaggio Kokoschka fuori di sè. Il pittore, geloso, (celebre il suo odio verso il defunto Mahler, sfociato nella distruzione della maschera funebre del compositore), furioso, furibondo non potrà accettare di perdere Alma e da artista qual è farà ciò che gli riesce meglio: cercherà di dar corpo con l'arte al suo desiderio. Creerà così, con l'aiuto di Hermine Moos, una bambola che entrerà nella storia e che riprodurrà nella sua mente e nel suo quotidiano la presenza di Alma. La bambola mangerà a tavola con lui, dormirà con lui, andrà in carrozza e a teatro con lui, parlerà con lui. Amici e compagni ne rimarranno stupefatti, allora come oggi. Anche Michele Mari nel suo Tutto il ferro della torre Eiffel e persino Camilleri nel suo La creatura del desiderio hanno dedicato spazio a questa Alma in pezza divenuta leggenda. Che ricorda tanto tutti gli studi sui fantocci, i simulacri e i feticci che sono spesso all'origine dell'arte antica.
Ma torniamo ad Alma. Quella in carne ed ossa.
Dopo l'intensa relazione con Kokoschka, nel 1915 Alma sposa dunque Walter Gropius che di lì a breve darà vita al Bahaus. Da lui ha un'altra figlia che morirà di poliomelite a 18 anni. Alma rimarrà nuovamente incinta, questa volta -forse- di un nuovo amante, lo scrittore Franz Werfel che diventerà famoso soprattutto per I quaranta giorni del Mussa Dagh (sullo sterminio degli armeni da parte dei turchi) e Una scrittura femminile color azzurro pallido (un libro dove passione e regole ferree della società si intrecciano con grazia devastante). Anche in questo caso però il bimbo morirà presto, ancora in fasce a soli 10 mesi. Nel frattempo, a causa di une telefonata, Gropius avrà la certezza dell'infedeltà recidiva della moglie.
Preferirà così divorziare e separarsi definitivamente da quella che è stata la donna più importante della sua vita. Quando nel 1929 si risposa, Alma è dunque al suo terzo matrimonio. Con Franz, che è stato un amico intimo di Kafka, morto solo pochi anni prima, Alma è felice sino al 1938 quando l'avvento del nazismo li costringe alla fuga (come Mahler anche Werfel è infatti ebreo). I due si rifugiano in Francia e sostano a Lourdes, dove Werfel si avvicina al cattolicesimo e approfondisce le vicende di Bernadette (di questo dà un buono spaccato narrativo Dan Frank in Mezzanotte a Parigi). Quando sono a Marsiglia, dopo peripezie e respingimenti, fughe e richieste di aiuto, arriva finalmente la salvezza e ha un nome e un volto: Varian Fry, giornalista americano. E' stato incaricato dall'Emergency Rescue Committee di aiutare 200 intellettuali perseguitati dai nazisti a raggiungere gli Stati Uniti (ne salverà ben 2.000 tra cui Hannah Arendt, Marc Chagall, Jean Arp, André Breton, Duchamp, Max Ernst, Feuchtwanger, Levi Strauss, Arthur Koestler, Victor Serge). Sostengono Fry personaggi come Albert Einstein, Thomas Mann e sua figlia Erika, Hermann Broch, la first lady Eleonor Roosevelt. Grazie all'aiuto di Fry, i Werfel attraversano il confine, percorrono Spagna e Portogallo. Approdano infine in USA. Sarà qui che Alma vivrà anche dopo la morte di Werfel, avvenuta con il chiudersi della guerra, nel 1945. Proprio in quello stesso anno finisce in qualche modo anche la vita avventurosa e irrefrenabile di Alma. Che a quel punto si ferma e inizia a scrivere la sua incredibile e corposa biografia. Solo allora probabilmente si renderà di conto di quanto la sua storia sia stata intrecciata con quelle di un'Europa in movimento perenne e in perenne conflitto. Dentro e fuori. Come in una delle drammatiche tele di Kokoschka, La sposa nel vento. E quando si fermerà a raccontare, la vita di Alma si trasformerà in leggenda.

sabato 24 maggio 2014

Freda, We miss You

Il lavoro che faccio spesso risucchia parecchia energia emotiva. Stare in mezzo alle storie, leggerle, raccontarle, crearle e soprattutto fare in modo che anche chi legge, guarda o ascolta possa sentirle come le ha sentite il suo autore (o in modo nuovo e diverso, ma comunque "sentirle"), è qualcosa che devi tirar fuori dal profondo e talvolta ti lascia come svuotato. Oggi poi, mentre sei all'opera con questo labor lime che richiede un "cuore pensante"e attento -come direbbe Etty Hillesum- devi fare in modo di rispondere al telefono, non trascurare le mail, aggiornare i social media che segui. E allora spesso a strato si somma strato e ti trasformi in un archeologo che riporta alla luce tesori sepolti quando d'improvviso si scatena una tempesta di sabbia.

Talvolta però succede qualcosa. Succede che ti capiti di passare un paio di giorni con una donna speciale che ha fatto un lavoro poi non così diverso dal tuo. Ed è proprio la sua storia che vorresti far arrivare agli altri perché l'hai trovata una di quelle storie che lasciano il segno e che sono rarissime eppure antiche. Mi è capitato proprio due settimane quando ho avuto la sfacciata fortuna di trascorrere una buona manciata di ore con Freda Kelly, storica segretaria dei Beatles.

Una donna che pochi sino ad oggi conoscevano, proprio perché ha fatto della sua semplicità onesta e genuina il suo più grande pregio. E mentre le lavoravo accanto, mi è tornato prepotentemente in mente Stoner e quello che ne ha scritto Willams "Credo che sia un vero eroe (...) Faceva ciò che desiderava fare, ci teneva, era in qualche modo convinto dell'importanza del lavoro che svolgeva.. il lavoro nel senso buono e onorevole del termine. Il lavoro gli dava un'identità particolare e lo rendeva ciò che era". 

Per me Freda è un'eroina da romanzo. Per questo ora che è ripartita mi manca come mi manca Jane Austen quando finisco per la decima (o undicesima?) volta Orgoglio e Pregiudizio. Mi manca Freda perché è diversa da quello che siamo soliti incontrare oggi. 
Così, per una volta, la tempesta di sabbia si ferma come d'incanto e trovo in mezzo alle pietre un tesoro imprevisto e inatteso, che basta a ripagarmi di tutto e a ridarmi il senso, concreto come uno scavo archeologico, delle cose che faccio. 

giovedì 17 aprile 2014

Un tocco di Giappone durante la Design Week

Quest'anno la Design Week cadeva per me in una settimana piuttosto densa tra la conferenza stampa e l'inaugurazione della mostra di Bernardino Luini (antico amore dei tempi dell'Università. Qui sotto l'immagine di uno degli affreschi di Villa La Pelucca), il Coriolanus del National Theatre, l'anteprima di un buffo film giapponese e diversi appuntamenti dei "miei" scrittori in tour per l'Italia.

Ciononostante una capatina in via Tortona e dintorni volevo assolutamente farla. A Milano accade una cosa strana: ci si divide tra "quelli del Salone sì" e "quelli del Salone no". Io sono dell'idea che lasciare spiragli aperti alla bellezza non possa che far bene. Sempre. Per cui ammetto che sentire tante lingue in metropolitana, trovare le strade di Milano piene di persone sino a tarda sera, avvertire la voglia di progettare e cambiare, ecco tutte queste cose superano di gran lunga il mio essere a disagio in mezzo ad eventi talvolta à la page ma con troppo poco di contenuto.
Così ho fatto la mia attenta selezione e ho deciso che avrei scelto due spazi soltanto: Superstudio Più, per stare sul classico, e poi una piccola chicca, la Tokyo Designers Week la cui locandina da sola valeva  con certezza una visita (la vedete qui sopra. Meravigliosa, non trovate?). E ora posso dirlo: mai scelta fu più felice ed azzeccata. Tutti gli oggetti esposti (dai kimoni ai fiori decorativi, dagli oggetti di arredo alle teiere contemporanee, dalle stoviglie da tavola alle lampade ecologiche) rispondevano al principio giapponese della cura assoluta per il dettaglio. La perfezione nel piccolo, insomma. La "storia" dentro un netsuke, giusto per rievocare Un'eredita di avorio ed ambra di Edmund de Wall.
Il consueto aperitivo dei vernissage del Fuori Salone era magistralmente sostituito da un servizio sushi impeccabile. Io, da vegetariana, non ho assaporato i piatti stellati. Mi sono accontentata, si fa per dire, di vedere la gioia negli occhi di Riccardo e Hiroko che erano con me. E di osservare incantata l'arte di quei sorridenti e saggi cuochi-artisti. A tal proposito, vi ho mai parlato del signore qui sotto, Mister Jiro Sushi? Urge una nuova puntata tutta a lui dedicata.




lunedì 10 marzo 2014

Il romanzo di Costantinopoli

Istanbul ti prende e ti porta via. Gli antichi viaggiatori la raggiungevano via acqua e quasi tutte le navi, secondo i racconti, entravano a Costantinopoli sul far del giorno. Allora i mozzi avvertivano gli assonnati naviganti che era tempo di salire sul ponte per osservare il profilo di Santa Sofia tra lo stridio acuto dei gabbiani e la brezza dell'alba.


Roma è una città che adoro perché è intrisa di storia e di mitologia. Una storia luminosa, come il sole che ti accompagna quasi sempre per le strade della nostra caput mundi. Istanbul, però, è intrisa di spirito. C'è una nebbia diffusa lungo il Bosforo, ci sono profili sfumati, mai netti, mai definitivi. Istanbul è maestosa quanto Roma ma di una maestosità misteriosa e lontana. Nel suo saggio su Leskov, Benjamin sostiene che l'arte del romanzo sia legata alla lontananza: lontananza nello spazio (da cui nascono le storie dei viaggiatori) e lontananza nel tempo (da cui prende vita la narrazione degli artigiani e dei contadini che trasmettono ai figli le loro antiche tradizioni e quindi la loro essenza). Istanbul per me è la città della lontananza, una città da romanzo. Non solo per il soggiorno che vi fecero i grandi (da Flaubert a Virgina Woolf, da Loti a Agatha Christie che stava al Pera Palace Hotel dove stavo anche io e dove scrisse Assassinio sull'Orient Express).


Non solo per l'iconoclastia e l'arte (intrecciate qui più che in qualsiasi altro luogo). 
C'è Santa Sofia, certo. Un'antica chiesa intitolata a alla sapienza e poi trasformata in moschea e poi aperta a tutti, come lo è ora, in un accavallarsi di funzioni e spiriti che fanno venire le vertigini suscitando l'invidia delle biblioteche di Borges. 
Non è nemmeno solo questo, però. 
A Istanbul accade qualcosa quando respiri. 




Forse però, come diceva Sallustio, queste cose non accaddero mai, ma sono sempre.