mercoledì 25 aprile 2012

Monumento ai Partigiani per il Cimitero di Bologna- Genni Wiegmann Mucchi

Le sculture per il Monumento ai Partigiani per il Cimitero di Bologna rappresentano uno dei momenti più alti della produzione di Genni. Per realizzarlo, la scultrice resta in continuo contatto con l’architetto Bottoni, ma anche con le autorità locali e, in primis, col sindaco di Bologna. Quando riceve la commissione dell’opera, infatti, Piero Bottoni, che durante la sua carriera progetterà cinque monumenti dedicati alla Resistenza portandone però a termine soltanto due , riserva a se stesso la realizzazione di cinque figure e assegna le altre sei alla Wiegmann e alla moglie Stella Korczynska Bottoni. Piero Bottoni è di certo uno degli amici più cari dei Mucchi. Lo studio suo e di Mario Pucci, del resto, si trova in quella stessa via Rugabella che Genni e Gabriele rendono luogo di ritrovo senza pari. Non a caso, dunque, nelle Occasioni perdute, Mucchi ricorda Bottoni come un uomo buonissimo, dall’inventiva vulcanica e dall’onestà più scrupolosa. Un uomo che non smette di lavorare nemmeno per un secondo, tanto da costringersi più volte a rimanere sveglio tutta la notte magari in compagnia dello stesso Gabriele e molto spesso consolato e rinvigorito dai panini e i caffè notturni che la vicina di casa Genni si premura di portare a quegli infaticabili architetti . Una copia del progetto resta a tutt’oggi anche tra le carte della nostra scultrice e chiarisce con sicurezza l’idea di fondo dell’architetto, che troviamo comunque esplicitata in alcuni fogli dattiloscritti che Bottoni fa pervenire alla sua collaboratrice. Il progetto per il Monumento ai partigiani, dunque, prevede la realizzazione di un grosso cono -quasi un imbuto aperto nella sua estremità più alta- che si innalza dal terreno; più precisamente si tratta di una struttura a forma di parabolide iperbolico realizzato in conglomerato cementizio armato. Anche le dimensioni risultano decisamente imponenti: l’opera presenta infatti un diametro di 15,2 metri e un’altezza massima dello stesso valore. Solo 9 dei metri in altezza, però, sono visibili dall’esterno, perché i restanti 6,2 si trovano interrati. All’interno della struttura trovano spazio, in una vasca, le figure in graniglia cementizia di Bottoni che paiono proiettarsi verso il cielo e che sovrastano l’ossario sottostante: qui riposano i resti di moltissimi partigiani italiani e starnieri caduti nel nostro paese. A metà del cono è collocata la scultura della Korczynska, scultrice eccentrica e talentuosa che Bottoni ha conosciuto durante un viaggio in Polonia. La nobile donna e il noto architetto si sono così innamorati e sposati lavorando fianco a fianco per molti anni, fino alla prematura scomparsa di lei, uccisa da un brutto cancro. Il nome della scultrice, Stella, rimarrà però nella memoria milanese perchè utilizzato per nominare la collinetta del QT8, il celebre Monte Stella . Le cinque figure di Genni, invece, sono distribuite tra l’interno e l’esterno: all’interno, poco sopra l’opera della collega polacca, si trova la celebre figura volante mentre i restanti quattro partigiani sono disposti sul bordo del cono, come a segnalare il raggiungimento della libertà dopo un’ardua salita. L’idea è infatti quella di rendere il visitatore parte integrante e viva dell’opera: esso deve partecipare esteticamente e quindi emotivamente a questo volo di partigiani così da comprenderne gli sforzi e i desideri. In questa concezione, che pare oscillare tra istanze classiche e consapevolezze espressioniste, i partigiani riescono a risorgere e a riconquistarsi la libertà della vita proprio come hanno fatto durante la guerra. Dall’esterno della struttura si può leggere, lungo il bordo superiore del parabolide, una frase a cui Bottoni tiene moltissimo e che l’architetto spiega con grande attenzione all’interno del fascicolo col programma iconografico inviato a Genni. Essa può essere letta da diversi punti di vista e la sua semplicità fa sì che le parole abbiano lo stesso senso anche se osservate in un ordine diverso. Si tratta del motto: LIBERI SALGONO NEL CIELO DELLA GLORIA che può anche essere letto da un punto differente come SALGONO NEL CIELO DELLA GLORIA LIBERI oppure, da un terzo punto di vista, NEL CIELO DELLA GLORIA LIBERI SALGONO. In questo modo si vuole offrire la sensazione che davvero i partigiani possano ritrovarsi resuscitati accanto ai vivi per riprendere assieme a loro la propria lotta. La forma stessa del monumento, del resto, è ispirata al mito d’Orfeo e alla sua discesa agli inferi: come il mitico personaggio -a cui Genni ha già guardato nel 1948 per la sua celebre scultura lignea - i partigiani devono discendere all’inferno per riuscire poi a ritrovare la via per risalire verso la luce. Se, dunque, il mondo greco e la classicità trovano nelle intenzioni di Bottoni, come in quelle della Wiegmann, una forte eco, non mancano però anche riferimenti evangelici e danteschi, come da più parti è stato notato. La discesa dei partigiani, infatti, non è stata solo quella della morte, ma -in primo luogo- quella della dittatura e del fascismo, la cui oscurità è rappresentata sul fondo della struttura stessa. E’ proprio qui sotto, quindi, che si incontrano i primi gruppi scultorei, quelli realizzati dallo stesso Bottoni, che fanno da preludio alla salita delle altre figure, tutte protese verso la libera conquista del cielo. Visto dall’esterno, invece, il Monumento appare come un’innegabile reinterpretazione di un forno industriale il cui pensiero, soprattutto in questi anni, non può essere scisso da quello delle più orrende industrie del Novecento : quelle che nei campi di sterminio hanno dato la morte a milioni di ebrei, zingari, omosessuali, testimoni di geova, partigiani. In qualche modo la “rinascita” si presenta dunque proprio a partire da una forma simile a quella di un camino di forno crematorio: l’arte si rinnova proprio a partire da Auschwitz, la cui esistenza, secondo Adorno, avrebbe impedito negli anni a venire ogni forma di creatività estetica proprio a causa della sua mostruosità. In questo senso il Monumento di Bologna si fa portavoce della necessità assoluta di ricordare: proprio negli anni in cui la testimonianza degli ex deportati nei campi di sterminio resta ancora troppo soffocata e inascoltata, Bottoni progetta una costruzione che rievoca con forza quel passato recente eppure già rimosso, quel passato che in tanti vorrebbero cancellare e che invece necessita di memoria e cura costante. Eppure è sempre qui nel Monumento di Bologna che si risentono anche delle consonanze meno drammatiche e dolorose. Alcune somiglianze, infatti, possono essere ritrovate se si incrociano questo progetto e quello dedicato al Palazzo dell’Acqua e della Luce all’E42 che Bottoni ha elaborato quasi vent’anni prima, nel 1939, proprio assieme a Gabriele Mucchi e a Mario Pucci. Anche in questo caso la nostra scultrice si è occupata dell’apparato decorativo. Tornando dunque alla Wiegmann, nel periodo in cui Genni lavora alle sue cinque figure in rame sbalzato -a partire cioè dal 1956- in moltissimi visitano il suo studio e la documentazione fotografica risulta, come sempre, molto vasta e dettagliata. Nella maggior parte di queste immagini, Genni indossa un abito scuro e delle perle bianche, al collo sono appesi gli occhiali di sempre legati con un semplice filo nero. Le mani restano ricoperte di guanti di pelle, indispensabili per quel lavoro complesso e pericoloso. Addirittura in una fotografia ci pare di riconoscere i tra molti visitatori, dietro a un cappello chiaro, la figura del collega Manzù. Nonostante le visite e i momenti di allegria, comunque, il lavoro è articolato con ordine e precisione; Genni, infatti, procede realizzando dei modellini di carta per studiare le dimensioni delle figure, ne sceglie le proporzioni, i volti, la gestualità; ne prepara la struttura portante e lo scheletro fatto di tubi d’acciaio. Poi sbalza in lamiera leggera e salda insieme i bozzetti per capacitarsi del possibile risultato finale. Solo a questo punto incomincia a sbalzare le lastre con l’aiuto di un maestro sbalzatore e mette in opera le diverse gigantesche parti per saldarle in una fase successiva avvalendosi del supporto di un saldatore professionista. Un lavoro durissimo, dunque, quanto a impegno creativo, ma anche quanto a forza fisica. Come ricorda Gabriele le lastre cui Genni ricorre sono sempre più alte e larghe di lei . In un’immagine molto suggestiva il volto in movimento di Genni compare davanti alle robuste gambe di uno dei partigiani: il dinamismo della scultrice pare qui contrapposto alla determinazione della sua opera e delle sue convinzioni. Tuttavia le fotografie più suggestive restano quelle realizzate dall’interno del grosso cono: la poesia della figura volante è qui contrapposta alla precarietà delle quattro figure sul bordo che paiono in bilico eppure quasi già sospese in aria. Quanto a Bottoni, amico e collega, le relazioni tra i due artisti non sono sempre facili. Il milanese, del resto, è estremamente impegnato e richiesto, soprattutto dopo la realizzazione del quartiere sperimentale QT8, uno dei primi esempi di urbanistica moderna a Milano . Non a caso, alla fine del 1956, Gabriele scrive all’architetto per conto di Genni e ne spiega l’irritazione per un mancato incontro tra i due che ha rattristato molto la scultrice rallentandone i lavori. A prescindere da ciò, però, il Monumento ai Caduti riscuote un certo successo e ancora quattro anni dopo la morte di Genni, nel 1973, ad esso viene dedicato un importante articolo ricco di immagini sul numero di ottobre di Controspazio .