giovedì 3 dicembre 2009

sylvia plath


Luglio 1950. Forse non sarò mai felice, ma stasera sono contenta. Mi basta la casa vuota, un caldo, vago senso di stanchezza fisica per aver lavorato tutto il giorno al sole a piantare fragole rampicanti, un bicchiere di latte freddo zuccherato, una ciotola di mirtilli affogati nella panna. Ora capisco come la gente possa vivere senza leggere, senza studiare. Quando uno è così stanco, alla fine della giornata ha bisogno di dormire e il mattino dopo, all'alba, lo aspettano altre fragole da piantare, e così si va avanti a vivere, vicino alla terra. In momenti come questi sarei una stupida a chiedere di più...

domenica 8 novembre 2009

Passione d'africa




Egidio Cossa, Jean-Louis Paudrata cura di Chantal Dandrieu e Fabrizio Giovagnoni

Passione d'Africa
l'arte africana nelle collezioni italiane

Passione d’Africa traccia la storia del collezionismo di arte dell’Africa subsahariana in Italia – o di italiani residenti all’estero – a partire dagli anni cinquanta fino ai nostri giorni. Il volume, con una introduzione di Egidio Cossa, riproduce oltre 130 capolavori, selezionati per il loro valore estetico e perché illustrano le tappe di questa vicenda collezionistica.Il libro vuole restituire una fotografia oggettiva, senza partiti presi o pretese di esclusività, del collezionismo d’arte africana in Italia. Lo fa con l’ampio saggio di Jean-Louis Paudrat e con la completissima crono-bibliografia dello stesso studioso che elenca oltre cinquant’anni di pubblicazioni, mostre, convegni ed aste di arte africana in Italia. Da questa ricognizione emerge una nuova immagine del collezionismo d’arte africana in Italia, a torto ritenuto un ‘parente povero’ di quello transalpino. Le numerose collezioni private, spesso di una qualità eccezionale, unanimemente riconosciuta, e la regolare organizzazione di eventi espositivi, alcuni dei quali rimasti senza pari, evidenziano come in Italia, forse più che altrove, una storia dell’arte africana sia nata da fecondi studi eruditi.Alle interviste inedite a importanti collezionisti come Ezio Bassani, Mario Meneghini, Aldo Tagliaferri e Giuseppe Calabresi, si aggiungono la testimonianza di Franca Scamperle e l’intervista integrale a Carlo Monzino, risalente al 1995, di Antonio Aimi e Alessandro Morandotti.Infine, Egidio Cossa, partendo dal nucleo di una ventina d’oggetti d’arte africana donati al Museo “Luigi Pigorini” dall’artista e collezionista Eugène Berman (1899-1972), si interroga sulla valorizzazione del patrimonio di una istituzione pubblica nazionale, a vocazione scientifica e didattica, nell’attuale contesto della diversificazione del pubblico.L’opera è accompagnata da un dvd che presenta i filmati di due celebri mostre, “Terra d’Africa, Terra d’Archeologia” (Roma 1990) e “Africa, capolavori di un continente” (Torino, 2003-2004).

Io l'ho ricevuto per il compleanno. Mai regalo fu più gradito.

lunedì 2 novembre 2009

Alda Merini

Le ho parlato al telefono un mesetto fa.
Che voce bella aveva. E squillante e arzilla.

Alda Merini, la poetessa. Non mi sembrava vero poterla sentire, trascrivere il suo numero nella rubrica fucsia perchè no, il cellulare proprio non era adatto per l'occasione.

Non ha ben capito chi fossi. Pensava si trattasse di una banca. Poi ha inteso che parlavamo di libri ed è tornato il sereno: si parlava di cose vere.

Alla fine ha chiuso la telefonata bruscamente. E io ero quasi commossa perchè anche se per pochi minuti l'avevo sentita, mi aveva sentita.

Ciao Alda, ci mancherai

venerdì 16 ottobre 2009

Momenti d'essere

In ogni giornata il non essere è molto di più che l'essere.Ieri, per esempio, Martedì 18 aprile, si da il caso che fosse una buona giornata; superiore alla media quanto ad .C’era il sole, mi sono divertita a scrivere queste prime pagine; mi sono tolta il peso della biografia di Roger, ho fatto una passeggiata… questi isolati momenti di essere erano tuttavia racchiusi in momenti di non essere molto più numerosi. 



Ho già dimenticato di cosa parlò Leonard a pranzo; e all’ora del tè; benché ieri fosse una buona giornata, quel bene era avvolto in una sorta di ovatta senza contorni.È sempre cosi. Gran parte di una giornata non la si vive consciamente.Si cammina, si mangia, si vedono delle cose, si provvede alle nostre incombenze.(...)Forse è dunque la capacità di ricevere scosse che fa di me una scrittrice. Posso azzardare la spiegazione che a ogni scossa nel mio caso, segue immediatamente il desiderio di spiegarla. Lo sento, il colpo, ma non è più come credevo da bambina, un colpo sferrato, da un nemico nascosto dietro l’ovatta della vita quotidiana; è o diventerà la rivelazione di un altro ordine, è il segno di qualcosa di reale che si cela dietro le apparenze; e sono io che lo rendo reale esprimendolo a parole, gli conferisco unità; e questa unità significa che ha perduto il potere di farmi del male; mi da una grande gioia, forse perché così facendo tengo lontano il dolore, rimettere insieme i frammenti, questo è forse il piacere più intenso che io conosca…Di qui nasce, potrei dire, una filosofia; o comunque l’idea che ho sempre avuto; che dietro l’ovatta si celi un disegno; che il mondo intero sia un’opera d’arte; che noi siamo parte di quell’opera d’arte. L'Amleto o un quartetto di Beethoven è la verità su questa massa immane che chiamiamo mondo. Non esiste nessuno Shakespeare; non esiste nessun Beethoven; sicuramente e decisamente non esiste nessun Dio; noi siamo le parole, noi siamo la musica, noi siamo la realtà"

giovedì 15 ottobre 2009

I giardini di Manhattan

I giardini di Manhattan. Storie di guerrilla gardens


Con questo libro Michela Pasquali accompagna il lettore in un singolare viaggio attraverso i numerosi giardini nati nelle aree abbandonate di Loisaida, un piccolo quartiere di Manhattan, nato alla fine dell’Ottocento per accogliere le grandi ondate di immigrati. Il libro ne racconta le origini, lo sviluppo, l’evoluzione nel corso di ormai più di trent’anni. Creati grazie all’iniziativa della comunità locale a partire dagli anni settanta, sono uno dei casi più interessanti di un inedito e prezioso patrimonio di verde urbano nascosto. Un insieme di culture, lingue, religioni e abitudini, che si sovrappongono e spesso si ritrovano nei nomi scelti per ciascuno dei giardini: El Sol Brillante, Brisas del Caribe, Miracle Garden, Jardin de la Esperanza, Creative Little Garden. «Il processo di creazione che ha dato vita a ciascuno di questi giardini non costituisce un’esperienza a sé e non è, in nessun caso, oggetto di mestiere; rientra invece tra le tante espressioni della quotidianità, come il modo di vestirsi, di parlare, di cucinare. Nei giardini, come nelle manifestazioni della vita di tutti i giorni, agisce infatti un medesimo tipo di rappresentazione, in cui un individuo si trova al centro di uno spazio, che costruisce e sviluppa come estensione della sua vita privata. Ogni giardino diventa il luogo possibile nel quale dare corpo a interpretazioni personali, al gusto del caos, alla follia di assemblaggi dettati da affetti, tradizioni, culti e credenze. Esso tende a configurarsi come territorio-possedimento, dove i segni dell’appropriazione fisica e simbolica si identificano con la disposizione di piante e fiori, con la scelta e la collocazione di oggetti. Questi elementi si compongono in sistemi originali, connotando spazi addomesticati che rivelano la mano e la proprietà del giardiniere».
l'autore
Michela Pasquali, paesaggista e botanica, ha progettato giardini in Italia e negli Stati Uniti. Da diversi anni si dedica allo studio dei giardini spontanei, creati nelle aree abbandonate in ambienti urbani degradati. Ha vissuto quattro anni a New York, dove ha fotografato e studiato i community gardens di Loisaida, oggetto di questo libro. Il suo lavoro prosegue nella pagina web www.criticalgarden.com (info tratt dal sito Bollati Boringhieri)

fernanda pivano

http://fernandapivano.blogspot.com/

venerdì 2 ottobre 2009

DAMA DI LUCE

Quando arriva il mattino, puntualmente lei si fa avanti e torniamo a incontrarci. Il suo corpo filiforme e allungato si avvicina svelto e di nuovo mi abbraccia.
La dama di luce è nata sul fare dell’alba, molto tempo fa. Grazie a Ben, anche se lui non può saperlo.
Ogni sera si avvicinava alle imposte e le accostava pian piano, sia quelle lunghe in basso, sia quelle altre, più piccine ma protese verso il soffitto. Ben chiudeva e si metteva a dormire.

Finchè non ci sono state le tende gialle, quelle acquistate dal signore all’angolo in un pomeriggio d’estate, finchè quelle tende sono mancate, la dama di luce non si è mai fatta viva. Poi è arrivato il gran giorno.

Il sole è cascato nel cortile ed è rimbalzato sulle biciclette per infilarsi dentro casa. Ha cercato e trovato uno spiraglio tra le imposte e le stecche delle tende gialle. Così la fessura verticale lungo le imposte si è trasformata in un elegantissimo corpo tubolare su cui, inclinata, compariva (e compare) il volto brillante della signora con le sue braccia spalancate verso il giorno. Lo spazio orizzontale tra imposte basse e alte si è fatto d’improvviso acceso e la dama ha avvolto l’appartamento come non aveva mai fatto.

E’ parecchio ormai che ci conosciamo. Al mattino parliamo in silenzio, del passato mio e del non detto, della fantasia in fondo, perché la realtà arriva solo qualche minuto dopo la nostra conversazione.

La dama di luce mi ricorda chi sono, mi ricorda un balcone di tanti anni fa, mi ricorda un putto di pietra, mi ricorda che le cose passano e ritornano ma che mai le perdiamo davvero.

Ha il sapore del vento. So che un giorno scapperà via, magari al cambio delle tende. Eppure questo non cambia niente.

Io la vedo. L’ho mostrata a Ben. Anche lui l’ha vista. E ora, sono sicura, chiude le imposte con grande attenzione per non sciuparle il vestito.

Questa notte… altro letto, altra casa. Ma so che da qualche parte la dama di luce continuerà ad aspettarmi ed a essere bella come solo lei sa fare.

giovedì 1 ottobre 2009

LA ROSA PURPUREA DEL CAIRO di Woody Allen

Cara Cecilia,
Ti osservo dal buco della serratura. Non chiedermi, ti prego, chi di noi due sia quello dentro lo
schermo o al di là di esso, perché non potrei dirlo con sicurezza e in ogni caso non importa molto.
Ti ho vista al cinema, nel luogo dove nei momenti liberi ti rifugi a respirare; è come se ti sedessi
davanti allo schermo per vivere un po’ anche tu, almeno nei ritagli di tempo. Sì perché immagino,
sono sicuro, che il bar e quel tuo grasso e stolto marito rappresentino uno dei brutti sogni che
arrivano la notte. (Io vado a dormire con la pace nel cuore, Cecilia, perché forse domani non mi
sveglierò e questa corsa che mi uccide avrà fine).




Quando la tua finzione, la nostra, amore, è
diventata realtà, quando son balzato fuori dallo schermo col mio cuore leale e puro e i miei soldi da
scena e il mio ridicolo casco, allora, Cecilia, venivo verso di te, accettavo il tuo mondo fatto di
finzione vera e di grigiore per amor tuo. Per te, Cecilia, accettavo il dolore e il pianto di chi fa
l’amore senza amore, di chi pensa che un esploratore in fuga sia gretto quanto lo è lui, di chi picchia
la moglie per farla rigar diritta (come l’hai sopportato, Cecilia, come hai fatto a non fuggire prima?
E del resto, fuggire? Come avresti potuto?). Qui fuori ti bacio e non c’è dissolvenza, sì, insomma,
manca qualcosa, qualcosa non funziona, come per le lampadine fulminate. Però il sapore della pelle
dalla pellicola non si sentiva. La tua, per esempio (per esempio? Ma se conosco solo la tua?), la tua
sa di pesca e dei pop-corn che ti porti in sala e poi sa di lavanda e di amido; non so come dire, forse
proprio di pulito, niente celluloide: carne allo stato puro. E ora mi hai lasciato. Sono tornato in
questo mondo in bianco e nero che non profuma di niente e non ha sapore. Ma che ti fa sognare. Se
mi alzo ogni giorno, se ogni giorno torno al Copa Cabana, Cecilia, lo faccio per te, per regalarti un
sorriso e continuare a baciarti, anche se da lontano. Non so se tu sia ancora lì tra il pubblico (ho
sempre avuto paura di voltarmi. Da allora non ti ho più cercata perché in quel mondo misterioso tu
potresti non esserci più e non potrei sopportarlo…) ma sento la tua presenza, i tuoi occhi su me e
vivo adesso e ogni giorno il nostro amore, pieno di quelle altre dissolvenze, quelle di cui il cinema
non è capace. Io ti salvo. Voglio crederlo. Devo crederlo per continuare a vivere, o a non-vivere, se
preferisci. E non so nemmeno se lui, l’altro, il mio altro, io insomma sia tornato a prenderti…
Se ben lo conosco posso dire con certezza che lui non c’è, che lui è fuggito e non ritornerà.
Che io invece resisterò sempre; e solo questo ci salva entrambi perché sempre mi alzo e parto al
mattino alla ricerca di ciò che voglio donarti e che ogni giorno ti porgo
La mia rosa purpurea strappata al deserto del mitico Cairo.

mercoledì 30 settembre 2009

Nonno profeta

Mio nonno è un profeta.
L’ho scoperto un pomeriggio di maggio guardando un film dal titolo poco pretenzioso alla tv: “Bibbia”. Ora, mi sono detto, non credo sia possibile rappresentare la Bibbia in due ore, anche se abbondanti. Comunque.
A un certo punto ecco Noè seduto nell’arca tra un tucano e un orso bianco (un orso bianco in Palestina? Ma insomma, la poesia è poesia, no?). La lunga barba, lo sguardo intenso di John Hudson, l’abito a sacco che si piega così bene sulle ginocchia. E all’improvviso mi sono tornati in mente tutti i profeti rappresentati nelle chiese o scolpiti nel marmo: Isaia, Geremia, Giona, Abacuch (Abacuch era lo zuccone di Donatello, se non ricordo male).
Insomma a guardare Noè mi è tornato in mente mio nonno.
Mio nonno costruì un giardino in cortile nell’anno della mia nascita.
Sì, sì. Cominciò picconando il quadrato di cemento tra i tre palazzoni popolari, comprò chili e chili di terra, pacchetti di semi, piante già grandicelle. Recuperò dei grossi massi da alcune cave di marmo -lui che il marmo lo levigava da sempre e lo conosceva venatura per venatura. Nel lavoro coinvolse tutti quanti: i miei zii ragazzini, mio padre (poco più di vent’anni), gli amici, gli altri condomini. Tutti erano mobilitati. Mia madre se ne stava sul balcone a guardarli così indaffarati, lei col suo pancione sempre più gonfio che cresceva e cresceva mentre anche il giardino veniva su pian piano.
Ma il clou doveva ancora arrivare. Quando ci furono i primi alberelli, i primi fiori, la cavernetta con la madonna e il suo lumino, mio nonno (il profeta) si fermò un minuto. E si mise a guardare. Bhè, quando mio nonno si fermava a guardare nessuno poteva distrarlo, nessuno aveva nemmeno il coraggio di rivolgergli la parola. Sarebbe stato come distrarre Noè mentre preparava l’arca, no? Eppure qualcuno passò in quel momento. E gli parlò. “Benito è molto bello. Ma ci vorrebbe una vasca per i pesci”.
Il giorno dopo iniziarono i lavori idraulici per la piscina.
Poi a turno ognuno rubò un paio di pesci dalle vasche comunali ed ecco uno specchio d’acqua in mezzo ai tre palazzoni. Al centro, trionfante, un bel Tritone in pietra con tanto di fiocina nella mano sinistra. Il giardino era praticamente ultimato.


Mio nonno non aveva studiato, se non alle elementari. E però gli piaceva il bello e sapeva con forza cosa era bello e cosa no. Semplicemente il bello era quello che a guardarlo faceva star bene. Non a caso il suo eroe era Jean Valjean, il protagonista dei Miserabili. Credo lo conoscesse attraverso lo sceneggiato in tv. Mi raccontava sempre di come, in una scena fondamentale, un prete spiegasse a Jean che a volte il bello è più utile dell’utile: è indispensabile. Per lui anche il viaggio di Ulisse era un viaggio verso il bello, verso l’avventura, verso la ricerca di sé. Anche Ulisse, mio nonno l’aveva conosciuto in tv. Ma di lui sapeva tutto. Proprio tutto. Molto più della mia prof. del ginnasio. Mio nonno, Ulisse l’aveva proprio capito. Ce l’aveva nel sangue. Mai dimenticherò quando recitava chiudendo gli occhi “Nessunooo, perché mi hai fatto questo? Nessunooo!”. Il miglior ciclope che io abbia mai visto.
Sì. Mio nonno aveva i suoi eroi. Eroi molto genuini, molto veri; belli, semplicemente. Come Barabba. Povero Barabba a confrontarsi col figlio di Dio! Povero Barabba con quel peso grosso sulle spalle!
C’era anche un’altra storia. Quella di Mesciangelo. Questa, a onor del vero, non la conosco molto bene. Credo si trattasse di un’anima tornata dall’aldilà. “Sono l’anima di Mesciangelo…”. Questa la recitava in montagna nelle notti in cui i temporali facevano rimbalzare il loro eco sulle pareti.
Mio nonno raccontava storie. Anche per questo era un profeta.
Mio nonno è morto da un po’. Non mi va di andare sulla sua tomba a parlargli. Io gli parlo da qui.
La sua foto è appesa sul mio letto. Una nostra foto anzi. Io e lui assieme in montagna. Io, il suo primo nipote, e lui: entrambi in viaggio come Ulisse, un po’ infedeli come Barabba, un po’ miserabili come Jean Valjean. E’ morto in un modo che ricordo come molto dolce. E’ morto silenziosamente, con dignità, con quel tanto di morfina necessaria a non farlo impazzire del tutto dal dolore.
Eppure vive sempre lì. Vive in quel giardino, nell’arco di edera che copre l’ingresso “inutile, ma così bello”. Nei pesci, nelle pietre rubate, nelle venature del marmo.
Il mio profeta.

martedì 29 settembre 2009



Eccoci in uno dei magici Community Garden di Manhattan. Io ne ho visitati un po', guida NFT (not for tourists) alla mano.

lunedì 28 settembre 2009

JENNY WIEGMANN MUCCHI. Prima Puntata

Jenny è un’artista che colpisce tutti. Scultrice eccellente, tedesca per nascita e formazione, Jenny conosce l’Italia nel 1924. Arriva nella penisola assieme al primo marito Berthold Müller-Oerlinghausen, anche lui scultore, ma di minor vigore, di minor inventiva. Dell’Italia la giovane, che non ha nemmeno trent’anni, ama davvero tutto: adora il calore della gente, ammira -da scalatrice in erba- le montagne innevate e le dolci colline. Ma ancora di più resta colpita e affiscinata dalle ricchezze nascoste delle chiese, dalle rovine all’aria aperta di Roma, dalle sculture classiche, dai mosaici di sapore bizantino. Jenny, che ha studiato in Accademia, cerca adesso nuove vie espressive.
E’ in questo frangente che conosce Gabriele, in un affollato ristorantino romano di via Frattini: non trovando tavoli liberi, infatti, Mucchi domanda a una coppia di tedeschi di potersi sedere accanto a loro. I tre cominciano così a raccontarsi di fronte a un bel piatto di capellini al brodo. Il giovane ingegnere ha sbagliato pensando di trovarsi di fronte a due fratelli. E’ vero: più che intimi i Müller appaiono colleghi, amici, compagni di lavoro. Ma sono anche due sposi, artisti per giunta, arrivati in Italia per la mostra missionaria che il Vaticano ha voluto di allestire per quell’anno Santo. La statua che stanno realizzando -un mastodontico Gregorio Magno che Gabriele potrà poi vedere- mostra con forza l’influenza che quei modelli paleocristiani di cui Roma è ricca hanno esercitato sui due tedeschi e sulla giovane donna in particolare.
Siamo qui agli esordi di un carriera artistica brillante e di una storia d’amore rocambolesca e imprevedibile. Jenny rientra dapprima a Berlino, viaggia attraverso la Spagna e la Francia meridionale, attraversa crisi depressive e momenti di assoluta creatività. In una fase particolarmente difficile della sua vita, la giovane assume una grossa dose di sonniferi; la salva, in extremis, il compagno tedesco. Dalle sue mani, intanto, nascono opere importanti: i rilievi e il crocifisso per la Cappella del Sudario a Moglia, molte Madonne con bambino, diverse maternità. Jenny, che mai avrà dei figli suoi, mostra qui un’attenzione alla donna, al suo corpo, alla sua nudità che pochi altri hanno in questi anni.
to be continued...

domenica 27 settembre 2009

E' ancora dato?


E' ancora dato?

E' ancora dato di scrivere
versi?

Come tenere la penna,
come inclinare il pennello?
...
dopo tutto questo?
mentre tutto
è questo?

E' ancora dato
il respiro?
il sonno?
i corpi?
Sopravvissuti
a tanti sommersi?

Non ammazzo
con queste parole?
Non sono
ignobile anch'io
e zozza
e assassina?

Non puzzo di feci
e di morte
se scrivo
mentre la gente s'accascia
mentre risuona un machete

mentre
ovunque
la vita
si spegne
e rapprende?

Non sono colpevole
anch'io?
io sicura
calda
piena
io
stanca
arrabbiata
svogliata?
io viva?

Non distruggo
con questo mio canto?

Questo canto che odio
e con cui sopravvivo
questo canto liana
in una foresta già nuda
questo canto sirena
questo canto di spine?