domenica 13 ottobre 2013

Con Vincenzo Vela sui tetti di Milano

Qualche settimana fa verso sera mi trovato al Forum Austriaco di Cultura in Piazza del Liberty a Milano. L'elegante palazzo, a due passi da corso Vittorio Emanuele, riprende nella facciata gli elementi di un antico caffè-concerto di Milano, il Trianon, che per alcuni anni fu trepidante scena dei fermenti futuristi. Sorgeva, il Trianon, a pochi passi dalla piazza, proprio là dove oggi si trova il cinema Apollo. Devastato dai bombardamenti, fu demolito nel dopoguerra e in parte "salvato" così, dando vita a un altro palazzo e a un'altra storia.


Mi trovavo al Forum per un'occasione originale: la presentazione (fuori sede) di una mostra che avrebbe aperto di lì a qualche giorno al Museo Vela di Ligornetto. L'esposizione in questione (aperta sino al 17 novembre) si chiama "c/o:K - Corpo e potere" e racconta l'avvicinarsi dell'omonimo gruppo di artisti di Linz, in Austria, allo scultore ticinese Vincenzo Vela, che è un po' un mito per tutti noi ex studenti dell'Università degli Studi di Milano. La direttrice del Museo, Gianna Mina, e il curatore della mostra, Vito Calabretta, sono stati esemplari nel loro approccio. Hanno raccontato del sodalizio artistico che ha coinvolto non solo il gruppo al suo interno, ma loro stessi come curatori, gli spazi del Museo (in cui i giovani di Linz hanno trovato residenza per diversi periodi) e persino la figura stessa di Vela. Per questo me li sono immaginati così, proprio come nel video del making of mostrato nel corso della conferenza: ogni artista dinnanzi a Vela, gli occhi negli occhi, le mani nei colori, nel marmo, nella creazione. Curatori inclusi. E' stata una serata raccolta e intrisa di bellezza. Si è conclusa sul terrazzo del Forum austriaco dove si è brindato sotto al cielo rosa del tramonto milanese assieme a Herbert Jäger, squisito e attentissimo padrone di casa.

Quel cielo di Lombardia... così bello quando è bello, così splendido, così in pace...


mercoledì 21 agosto 2013

Nara e Delfi: dove le statue prendono vita

Tutti coloro che visitano il Kansai confessano per Nara una passione viscerale. Impossibile dargli torto.


Appena si arriva alla piccola stazione (io giungevo da quella enorme e futuribile di Kyoto) si avverte nell'aria un'euforia quasi alcolica che cresce via via mentre ci si avvicina al Todai-ji, uno tra i templi più noti del Giappone. Qui si trova, in un tripudio di superlativi da mozzare il fiato, la più grande statua bronzea del mondo contenuta all'interno della costruzione lignea più imponente del pianeta.

Eppure la magia di Nara non deriva da qui. Non è mai la grandezza in Giappone a lasciare stupefatti. E' piuttosto la perfezione e la cura del dettaglio. E ancor più, forse, ciò che si respira nel verde.

Questi santuari maestosi e massicci si ergono quasi sempre immersi tra alberi e piante, tra sentieri e percorsi di pietra, spesso circondati da animali messaggeri degli dei, come nel caso di Nara e dei suoi cerbiatti.

Per questo a Nara mi sono sentita come solo una volta nella vita mi era già capitato. Mi trovavo a Delfi,  lungo il percorso di scoperta del santuario. A Delfi sono stata catapultata nell'omphalos del mondo. Ho avvertito il respiro della Pizia soffiare distintamente nel mio orecchio. Proprio come a Nara ho udito chiara e inconfondibile la voce della terra.


Questi spazi non sono diventati sacri per la magnifica statua del Buddha dallo sguardo pacificatore, né per il perfetto tempio di Apollo, dio del sole. Questi spazi erano già sacri prima e uomini come noi hanno qui reso omaggio alla religione che è la più antica di tutte: quella della natura e della sua energia potente, vitale e allo stesso tempo distruttrice.

A Nara come a Delfi c'è pace. C'è pace anche grazie ai due mostruosi figuri che proteggono il tempio (Ungyo e Agyo) e a quell'essere raccapricciante col cappuccio rosso, a destra dell'entrata, che a noi occidentali pare la morte e qui rappresenta la compassione per gli oppressi e per chi soffre. A Delfi c'è pace nella luce e anche nelle tenebre, grazie alle rocce appuntite e all'asprezza della fonte Castalia.

Qui, come laggiù, due statue in bronzo. Quattro occhi che guardano un punto oltre la nostra testa. Per questo a ripensare all'auriga di Delfi (tra le più belle cose mai realizzate su questo pianeta) mi pare diventi ancora più chiaro cosa abbia rappresentato 1300 anni fa la cerimonia di "apertura degli occhi del Buddha": 10 mila persone in festa per celebrare la statua che prendeva finalmente vita.

(...) Di queste domande che ricorrono,
degli infiniti cortei senza fede, di città piene di sciocchi,
di me stesso che sempre mi rimprovero (perché chi più sciocco
di me, e chi più senza fede?)
di occhi che invano bramano la luce, di meschini scopi,
della battaglia sempre rinnovata,
dei poveri risultati di tutto, della folla che vedo sordida
camminare a fatica attorno a me,
dei vuoti ed inutili anni degli altri, io con gli altri legato in tanti nodi,
a domanda, ahimè, la domanda così triste che ricorre: che cosa
c’è di buono in tutto questo, ahimè, ah vita?
Risposta:
che tu sei qui, che esiste la vita e l’individuo,
che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuirvi
con un tuo verso..
W.W.

Kyoto, mon amour


Quest'estate sono stata travolta da un insolito destino nell'azzurro mare di agosto.

Ci sono città che ti sorprendono all'improvviso come il sapore di spezie nuove sulla punta della lingua. Con Kyoto è andata così.

Mi aspettavo una città maestosa e ricca di storia, monumenti, santuari.
Invece mi sono trovata di fronte a un luogo non solo intriso, ma composto di bellezza. Nato dalla bellezza. Non un telo  bianco pucciato nella tintura, ma una città le cui fibre originarie sono fatte di colore e luce. Anzi di tubetti di pittura, lanterne di pietra e racconti millenari.


Il primo ricordo a caldo, dopo appena qualche giorno, corre veloce al fiume Kamo. Un corso d'acqua discreto, ma anche fiero ed elegante che scorre attraverso il cuore della città costeggiando Gion e Pontocho, i quartieri delle Geishe, il germe pulsante delle notti fi Kyoto. D'estate i locali sulla riva del Kamo costruiscono delle pedane che sporgono sull'acqua. Sono le cosiddette kawayuka che esistono da tempi immemorabili come mostra l'immagine qui sopra. Così, quando dopo una giornata afosa me ne stavo lì -seduta ai tavolini del Sent James Club, con la mia Sapporo gelida tra le mani ad osservare il rosa del tramonto trasformarsi in oro,  in rosso fuoco e infine in blu elettrico- avevo di fronte edifici tradizionali giapponesi e palazzi da ville lumière. Come quello che vedete nella parte sinistra della foto in alto, il Tokasaikan. Un edificio ultimato negli anni Venti del Novecento dall'americano William Merrell Vories, trasferitosi in Giappone per insegnare inglese e rimasto poi qui per amore rispolverando anche la sua antica professione di architetto.

Ecco la prima folgorante rivelazione. Quella sera ho sentito che Kyoto era una città in sintonia col mio spirito. Una Parigi d'Oriente, fatta di miscellanie e di sincronie. Una città che -una volta scoperta- diventa l'amore della tua vita e non ti lascia più.

Sì, Kyoto Mon Amour.



lunedì 20 maggio 2013

Alla Ricerca

Raccogliendo frammenti della vita di mia nonna, mi sono ritrovata di fronte a una fotografia dei genitori di Anne Frank


Edith incontra Otto, un conoscente di Francoforte sul Meno, durante una vacanza a Sanremo. E' il marzo del 1925. Mia nonna al tempo ha cinque anni e vive per l'appunto a Sanremo, dove è nata. La sua infanzia mia nonna la ricordava come una favola. Sin dal Settecento Sanremo era la città sopra il pan di zucchero, una città fatta di gioia palpabile, come una pasticceria. E mia nonna questa cosa l'ha sempre sentita, soprattutto quando bambina viveva coi suoi genitori all'Hotel de Londres. Lei raccontava che l'hotel fosse loro. I suoi figli pensano invece che i miei nonni siano stati solo i gestori dell'hotel, ma anche di questo parleremo in un'altra puntata.  

E' sempre il 1925, nel mese di maggio questa volta, che i Frank tornano in Riviera per il loro viaggio di nozze. Sul portale ufficiale della Fondazione Anne Frank ho trovato questa foto. Si tratta di una cena di gala in un hotel sanremese nel maggio del 1925. Al tavolo sul fondo ci sono i neosposi assieme ai genitori e a una zia di lei. E a tre signori non identificati. Ecco, la mia ricerca da qualche mese a  questa parte consiste nel cercare di capire quale sia questo hotel. Gli unici elementi caratterizzanti sono le cornici di questi specchi che si innalzano alti verso il soffitto (con gli angoli rientranti e motivi floreali) e le trame delle pareti, forse boiserie dipinte di bianco? 

Ho fatto mille confronti e verifiche. Ho tante ipotesi ma nessuna certezza. Eppure ogni tanto mi chiedo se, da qualche parte oltre quella porta sulla sinistra, in quell'ombra che pare un riflesso di luce verso cui l'uomo in piedi getta lo sguardo, ci sia mia nonna. Con il vestito con sopra le ciliegie, il suo preferito.

lunedì 6 maggio 2013

Edward Lear, The Life of a Wanderer


Edward Lear è un personaggio curioso e per certi versi misterioso. Di lui conosciamo anche dei dettagli spiazzanti, di quelli che quando li trovi segnati in una biografia strabuzzi gli occhi e concentri la memoria, sapendo che magari la data di nascita non la ricorderai (in questo caso parliamo del 1812) ma di certo non dimenticherai che Edward aveva 20 fratelli (venti), soffriva d'asma e di attacchi epilettici ed era piuttosto miope come mostrano gli occhialoni che indossa nelle immagini che lo ritraggono. 



Tra i punti sapidi della sua storia che mi piace ricordare, ci sono:

-il Libro dei Nonsense che racchiude i suoi limerick, affascinanti componimenti in rima dal contenuto umoristico e surreale che ispireranno lo stesso Rodari
-un rapporto strettissimo con il fidato amico felino, Floss
-una bella amicizia con il poeta Alfred Tennyson e con la moglie di lui, Emily
-la vicenda della sua doppia villa a Sanremo (vedere post precedente)

C'è poi in questo geniale autore, una passione per tutto ciò che esotico: dai pappagalli (protagonisti di molte delle sue illustrazioni) all'Italia di metà '800. Perché per chi approdava nello stivale per il Grand Tour, l'Italia era un luogo così: fatto di rovine, opere d'arte, paesani focosi, scorci praticamente medio orientali, profumi e sapori come sono forse oggi per noi quelli di Istanbul e dintorni.

E allora ecco che oltre l'Italia il nostro visita la Grecia, l'Albania, la Siria, la Palestina, l'Egitto. Fino a giungere nella fantasmagorica India.

Ah dimenticavo. Oltre che scrivere e disegnare e viaggiare, Edward è anche musicista autodidatta...
Foss di questo aspetto è particolarmente fiero.

sabato 4 maggio 2013

Villa Verde e Villa Emily: storie di case, pittori e poeti a Sanremo

Rieccomi dopo lunghissima assenza. Non che abbia smesso di scrivere, ma lo facevo qua e là, su word, su carta, su social network. Oggi però questa storia mi va di raccontarla qui perché mi serve uno spazio "fisico" un po' più ampio del solito e che resti visibile per le puntate a venire. Tutto parte da questa foto qui. Si tratta di Villa Emily. La fece costruire a Sanremo nel 1871 Edward Lear, illustratore e poeta inglese che le diede il nome dell'amica Emily, sposa del poeta (e amico a sua volta) Alfred Tennyson. Qualche tempo dopo la fine dei lavori, lo stesso imprenditore edile che aveva realizzato la villa vi costruì proprio di fronte un grande albergo che le toglieva luce rovinandone la vista (della serie: certe cose sono sempre successe). Furibondo l'eccentrico Lear mise in vendita la villa e ne fece costruire una identica proprio sul mare chiamandola Villa Tennyson. A chi gli chiese il perché della casa fotocopia, identica in tutto e per tutto alla prima, Lear rispose che la scelta era motivata dal desiderio di mettere a proprio agio l'amato gatto Foss. A quel punto Villa Emily fu quindi data in gestione come pensione e venne ribattezzata Villa Verde. A condurla per diversi anni fu Dora Kellner, ex moglie di Walter Benjamin, giunta in Italia con il loro bimbo, Stefan. Dora era una donna colta e determinata, figlia di un celebre anglista di nome Leon. Prima di sposare Benjamin era stata la moglie del giornalista Max Pollak. Proprio qui a Villa Verde, in via Hope 6, si rifugiò, in fuga dal nazismo, Benjamin. A Villa Verde, a quanto risulta, Benjamin soggiornò dunque varie volte tra l'ottobre del 1934 e il gennaio del 1938. E secondo le testimonianze dell'ex moglie qui a Sanremo, proprio a Villa Verde, andarono smarrite due valigie contenenti quello che per qualcuno era il suo tesoro: alcuni preziosissimi scritti che non sono mai stati ritrovati. Come quelli che si dice sparirono a Port Bou subito dopo la sua morte, il 26 settembre del 1940...

to be continued