domenica 13 settembre 2015

Rincorrendo Re Artù, tra cavalli selvaggi, noci di cocco e nastri variopinti (non lontano dalla casa di Agatha)

Giorno Cinque
La prima volta che ho incontrato davvero re Artù (se tralasciamo La Spada nella Roccia di Disney che pure adoro) è stata al liceo, quando la prof.ssa di francese ci ha iniziati al ciclo bretone con i libri di Chrétien de Troyes. Lì per lì, confesso, non fu folgorazione. Fascino sì, però. Discreto e per certi versi incompleto perché sentivo (e sento) che su questa storia mi mancavano ancora molti tasselli. Comunque con i viaggi delle ultime due estati sto cominciando a comporre il mio puzzle ripercorrendo le tracce di Artù al di qua e al di là della Manica. Nel mio quinto giorno in Cornovaglia, infatti, sono partita alla scoperta di Tintagel, luogo in cui -secondo la leggenda- nacque il mitico re.
Gli studi più recenti ritengono che il nome Artù abbia la stessa radice del vocabolo che indica l'Orso, sia in celtico che in greco. Questo vorrebbe dire che nella figura del giovane che estrasse Excalibur dalla roccia confluivano, per l'immaginario comune, tutte le qualità attribuite all'animale: la forza, la lealtà, la giustizia, la passione, il coraggio. Sia in pace che in guerra, Artù rappresentava il sovrano ideale. Dunque chi visita Tintagel si trova proprio nel luogo dove un personaggio eccezionale ha guardato il cielo per la prima volta. Di fronte a quelle scogliere a strapiombo sul mare, in mezzo alle folate di vento improvvise, circondata dall'erba soffice della Cornovaglia e dalle rovine del castello, poco importa che Artù sia un sovrano storico o immaginario. E' quello che rappresenta che qui si manifesta in tutta la sua potenza e anche nella sua fragilità. 
Perché, su queste rocce dove persino i gabbiani tremano scossi dal vento, basta una distrazione per scivolare di sotto o una tempesta improvvisa o una marea più rapida del solito a ristabilire l'ordine naturale e far tornare a governare gli elementi, anche nella loro forma più devastante. Nella parte bassa del sito si trova poi la grotta di Merlino. Ne parla anche Tennyson (di cui avevamo raccontato alcune vicende periferiche qui) nei suoi Idilli del re dedicati proprio alle vicende arturiane, spesso a partire dalla narrazione che ne fece Mallory. 
Terminato il viaggio nelle terre di Artù, siamo ripartirti direzione St Nectans Waterfall, una spettacolare cascata dove l'energia naturale non lascia scampo. E' un luogo curioso e vivacissimo: lo si raggiunge dopo una mezz'ora di cammino in mezzo ai boschi e, quando vi si arriva, si discende sino sotto alla cascata dove ogni sorta di ex voto fa bella mostra di sé. Un collezionista ne rimarrebbe stupefatto: immagini sacre convivono con cristalli celtici, nastri colorati, monete incastonate nel legno, statuette di fate, santini e pietruzze variopinte... Ognuno a suo modo vive qui la sua religiosità, più o meno tradizionale, più o meno condivisa. Ammettendo in ogni caso che nulla è più energetico, stupefacente e sbalorditivo della natura.
Forse lo ha spiegato bene Salgado in una sua intervista: "Non credo in Dio. E ho smesso anche di credere nell'uomo. Ma i miracoli ci sono, per me lo dimostra l'esistenza delle noci di cocco: tutto è lì dentro: cade dall'albero, resta a terra per giorni, la apri ed è ancora fresca". Così dopo una fresca limonata e una carrot cake gustata nel punto ristoro gestito da hippy proprio sopra la fonte, via di nuovo verso l'autostrada. Ci attendeva il Dartmoor, il parco nazionale del Sud della Gran Bretagna. Si capisce subito quando entrate nel parco, almeno se arrivate -come capitava a noi venendo da Tintagel- da Tavistock, città natale del corsaro Francis Drake. 
Superata la cittadina, pochi chilometri e ci siamo trovati circondati... da cavalli allo stato brado. E' stato uno spettacolo così  emozionante nella sua naturalezza da lasciarci stupiti come polli. Chi viene dalla città spesso diventa così ingenuo e impreparato rispetto alle cose più naturali, da lasciarmi sconvolta. Ovverosia: io stessa mi stupisco di me stessa, in un intreccio bizzarro epperò vero e sacrosanto. Comunque, bando alle ciance, ci siamo fermati lì, in mezzo ai cavalli. Il cielo plumbeo e minaccioso non faceva alcuna paura: era l'ambientazione ideale per quella che è la brughiera di Arthur Conan Doyle (di cui avevamo detto alcune cose qui e che nel Dartmoor ambientò Il Mastino dei Baskerville) nonché di Thomas Hardy (nei suoi romanzi la natura è un personaggio vero e proprio, violenta, istintuale, incontenibile. E stando qui si capisce perchè). Il nostro rifugio per la notte è stato il Kilbury Manor, questo delizioso posto qui (distante poco più di 30 minuti da Torquay, città natale di Agatha Christie che nei miei viaggi ho inseguito sino ad Istanbul). Al maniero, con le sue stanze calde e accoglienti, le colazioni della meravigliosa signora Julia soddisferanno anche i palati più esigenti e saranno sufficienti per farvi sentire sazi per almeno 12 ore! Una cena veloce, un po' di lettura in giardino, una doccia caldissima nel bagno bianco e nero e poi via a dormire tra i suoni della natura. Certamente Merlino, magari in compagnia di Dieci piccoli indiani, avrebbe vegliato su di noi.

Tutte le foto di questo articolo (giovane Artù a parte!) sono opera di Riccardo Bianchi.


Giorno Uno

Giorno Due

Giorno Tre

Giorno Quattro

Giorno Cinque

Giorno Sei

domenica 23 agosto 2015

Il giorno di Virginia

Giorno Quattro
Il quarto giorno del nostro viaggio nel sud dell'Inghilterra è iniziato con un incendio. Le fiamme erano quelle della casa di Barbara Hepworth, che si trasferì a St. Ives nel 1949 e vi morì ventisei anni dopo, nell'incendio accidentale divampato nel suo studio. Il fatto che numerosi artisti si riunirono a St. Ives nel Novecento lo avevamo raccontato qui. Oggi però, in attesa di Virginia, vorrei concentrarmi su Barbara, una donna bellissima e dall'intelligenza limpida che nella sua casa, poco lontano dal mare, fuse i colori delle piante e le tinte essenziali delle sue sculture, le forme sinuose degli alberi e quelle tondeggianti e aspre dei suoi lavori. Benché si trovi in Cornovaglia, la sua abitazione ha qualcosa di greco: vi si respira aria ellenica, ispirazione ellenica, gusto ellenico. E infatti, se si va a scavare un po', si scopre che dall'arte cicladica e dall'arte greca arcaica Barbara era rimasta folgorata.
Chi mi conosce sa che questa è una delle mie grandi passioni, tanto che la mia prima tesi si intitolava proprio "Primitivismo e Grecia: come l'arte preellenica e l'alto arcaismo hanno influenzato gli artisti del Novecento". Era il luglio 2004 quando l'ho discussa con un archeologo e uno storico dell'arte contemporanea che rappresentano due dei miei maestri. Due anni dopo la Fondazione Goulandris di Atene avrebbe dedicato a questo tema la mostra Shaping the beginning rendendomi ancora più entusiasta a riguardo. Ma quello che conta, in questo caso, è stato ritrovarla qui, in questo viaggio oltremanica, quell'idea di Grecia. L'idea che potesse essere fonte rinnovata e continua di spunti e di vitalità, non di variazioni sul tema ma di rivoluzioni copernicane. L'archeologia mi ha insegnato questo: cercare sempre le fonti, scavare con cura, strato dopo strato, senza trascurare nulla. Curare i dettagli, ma soprattutto non aver paura di sporcarsi le mani, perché i tesori si trovano lì, sempre sotto terra. Forse è anche per questo che mi piacciono le scultrici, Genni prima tra tutte, e poi Barbara e le altre. Lo studio della Hepworth è protetto oggi da una grossa vetrata. Da qui lei accedeva, un tempo, al giardino. Sempre da qui i visitatori possono oggi osservarne gli abiti e gli strumenti da lavoro, intuendone le tecniche, immaginandosene le movenze. Per me è stato un po' come venirla a trovare a casa sua, Barbara, nella stanza tutta per lei che l'aveva vista plasmare il suo mondo e le sue forme. E nessuna visita poteva essere più adatta di questa, nella giornata che si sarebbe rivelata, per eccellenza, la giornata di Virginia.
Usciti dalla casa-museo, abbiamo dato indicazioni ad alcuni italiani che si erano smarriti per le vie di St. Ives e ci siamo diretti a fare provviste in vista di un picnic sulla spiaggia di Porthminster. Prima, però, mi sono intrufolata da St. Ives Bookseller, una graziosa piccola libreria collocata in una delle vie interne della cittadina. Lì, su uno scaffale giusto all'altezza del mio naso, mi aspettava un libro rivelazione: Virginia Woolf & Vanessa Bell: A Childhood in St. Ives. E' stato leggendo questo libro-album che ho scoperto che la casa dove Virginia aveva passato l'infanzia, quella da cui osservava il faro che avrebbe reso immortale in To Lighthouse, esisteva ancora. Talland House era a pochi metri da me, a poca distanza da quella spiaggia, persino a pochi metri dalla camera vista mare in cui stavo vivendo in quei giorni. Lì per lì mi è mancato il fiato. Non solo avevo potuto ammirare sin dal primo giorno a St. Ives il faro di Godevry Island. Non solo lo avevo osservato al mattino presto e sul far del tramonto, nel pieno pomeriggio e a mezzodì, da ogni angolazione possibile chiedendomi sempre se, proprio da lì, Virginia lo avesse guardato. Ora avrei potuto cercare la casa. Toccare con mano il fatto che c'era ancora e che non era cambiata poi molto. Così, dopo il pranzo sulla sabbia a pochissimi passi dall'oceano gelido e attorniati dai gabbiani terribili e bellissimi della Cornovaglia, siamo partiti alla ricerca. Riccardo è bravissimo in queste cose e -fotografie in bianco e nero alla mano- ci siamo arrampicati lungo la ferrovia e quindi nel giardino e sul retro di quello che oggi è il St. Ives Harbour Hotel. Dopo qualche attimo di smarrimento (la collocazione esatta la conoscevamo solo da una foto del 1894), eccola là. La casa.
A Talland House Virgina, Vanessa, Adrian e Thoby passarono gli anni forse più belli della loro vita. Pescavano, nuotavano, esploravano i boschi e le scogliere, dipingevano (Vanessa), chiacchieravano sino a notte fonda assieme a Stella, si lasciavano confortare nel buio dalla luce del faro. Qui imparavano a sentire con quella intensità che Virginia racconterà in Gita al faro. I suoi genitori, Leslie e Julia Stephen, avevano acquistato la casa nel 1881 e vi passarono la loro prima estate l'anno seguente, quando Virginia non aveva neppure un anno. Julia era bellissima e piena di vita: sua zia, la fotografa Julia Margaret Cameron, la aveva immortalata in ritratti splendidi e il pittore preraffellita Edward Burne-Jones ne aveva fatto una delle sue modelle più candide e pure. Sino alla morte di questa donna incantata eppure piena di senso pratico, le estati della famiglia Stephen (che comprendeva anche i figli del primo matrimonio di Julia) trascorsero lì, su quelle scogliere. Mancava solo Laura, la figlia di Leslie e Hariet: la piccola aveva un nonno celebre, quel William Thackeray dalla cui penna erano nati La fiera delle vanità e Berry Lyndon. Ma la sua salute mentale era fragile e complessa. La scrittura è come una scatola cinese: più annoto e più vorrei scrivere e anche di Laura un giorno vorrei raccontarne di più; per ora mi limito a segnalare questo link sulla sua storia, ripromettendomi di riconoscerle un giorno un po' dello spazio che merita. Le estati dunque trascorrevano luminose e diamantine. Poi tutto cambiò: alla morte della moglie (Julia era la seconda sposa che perdeva dopo Hariet), Leslie fu travolto dal dolore e vendette la casa di St. Ives, quel luogo che Virginia definiva (vado a memoria) "il dono più grande che mio padre ci abbia mai fatto". In quel momento l'infanzia dei fratelli Stephen si chiudeva per sempre. Stella, frutto del primo matrimonio di Julia assieme a George e Gerald e sorella amatissima, prese simbolicamente il posto della madre. Sarebbe morta giovane anche lei, lasciando l'eredità pesante e difficile del suo ruolo a Vanessa. Qui si aprirebbe un nuovo capitolo sull'adolescenza dei giovani Stephen e il loro trasferimento a Bloomsbury, ma sarà bene affrontarlo altrove e rimanere, ancora qualche istante, a St. Ives. La morte della mamma e la perdita di Talland House furono un unico cocente dolore per gli Stephen: la ricostruzione di quell'infanzia chiusa tanto bruscamente e la ricerca della madre perduta furono così la ragione per cui Virginia scrisse Gita al faro. Quando lo lesse, Nessa scrisse alla sua Ginia:

«A me sembra che tu abbia tracciato un ritratto della mamma che le somiglia più di quanto avrei mai creduto possibile. È quasi doloroso vedersela risuscitare davanti. Sei riuscita a far sentire la straordinaria bellezza del suo carattere... È stato come incontrarla di nuovo... Essere riuscita a vederla in questo modo a me sembra un'impresa creativa che ha del miracoloso...»



L'anno dopo la morte del padre -un personaggio dalle fattezze e la cupezza biblica, un uomo severo, duro e allo stesso tempo, mi pare, fragilissimo- i quattro Stephen torneranno a St. Ives alla ricerca di ciò che sono stati. Lo stesso accadrà pochi anni dopo e Virginia verrà raggiunta da Vanessa e da suo marito Clive Bell. E ancora nel 1909, quando una mattina si troverà a passeggiare per Regent Park, Virginia si fermerà all'improvviso: le sembrerà insensato essere lì a Londra mentre a poche ore di distanza c'è il luogo che ama. Non avrà esitazioni: acquisterà un biglietto del treno e partirà all'istante. Sarà a St. Ives alle 22.30 senza nulla: nè denaro, nè orologio, nemmeno un cappotto. Ma, un po' come la Nina di Cechov, Ginia sarà sempre attratta dall'acqua "Io sono attratta dal lago, come un gabbiano. Ho il cuore pieno di voi".

In questo caso il lago di Cechov diventa mare, anzi oceano. E si trasforma nell'acqua delle Onde e di Gita al Faro in cui la Woolf  non racconta, mostra. Ci fa vivere attraverso i suoi occhi, ci offre le sue deformazioni per darci l'idea esatta dei luoghi che sente per come li sente.
Come ha imparato a St. Ives.
E come fa Cézanne, che Virginia adorava, con le sue mele.



ps. Questo pezzo è stato scritto ascoltando Le onde, l'album che Ludovico Einaudi ha scritto in omaggio al libro di Virginia.






Giorno Uno

Giorno Due

Giorno Tre

venerdì 21 agosto 2015

Quando gli artisti (e non solo) si riuniscono: storie di scogliere, "pittori-pescatori" e cimiteri sulla collina

Giorno Tre
Dopo la ricca colazione di Lynn e John (di cui vi avevo raccontato alla fine di questo post), lunedì la giornata si presentava coperta e ventosa, così abbiamo deciso di visitare la Tate di Saint Ives. Nella remota Cornovaglia, infatti, la Tate ha aperto un distaccamento, minuto ma curato, che si affaccia sulla spiaggia e che simboleggia anche un po' un omaggio a tutti quegli artisti del Novecento che in questo paesino di pescatori hanno trovato la loro ispirazione, in primis Kit Wood, Barbara Hepworth, Ben Nicholson, Naum Gabo. Con una piccola aggiunta al costo del biglietto, si ha diritto a un ticket speciale che permette, entro sette giorni, proprio l'accesso alla casa museo di Barbara Hepworth. Consiglio senza dubbio di approfittarne perché, come vi racconterò in una delle prossime puntate, la residenza e soprattutto il giardino e la storia di Barbara valgono assolutamente una visita.
Qui sento la necessità di un piccolo inciso. Il tema delle colonie di artisti mi affascina sin da quando ero piccola. Mi sono appassionata ai Nabis, a Die Brucke, a Pont Aven. La ragione di questo miscuglio di emozioni si è fatto più limpido da quando vivo, per un pezzetto dell'anno, a Montaletto. Questo luogo dal sillabare poetico è una frazione tra Cervia e Cesena e rappresenta il mio rifugio in mezzo alla natura. I campi sul retro della casa, l'orto, gli alberi da frutto; le colline sulla linea dell'orizzonte, le cicale, i grilli, i gabbiani, l'aria del Mediterraneo (che non è troppo lontano). In questo buen ritiro vivo nel mio piccolo l'esperienza della colonia. Nella parte bassa della casa colonica (e forse già questo nome doveva darmi un indizio in tal senso) si trova infatti lo studio di design di Ric e Marco. Loro disegnano, progettano, inventano, costruiscono, fotografano. E qui a casa, ogni volta che ci veniamo ma anche quando manchiamo, sostano e passano amici stravaganti, viaggiatori di rientro dal lontano oriente, elettricisti pasticcioni ma all'avanguardia, giocatori di basket, esperti di fanzine, cuoche, chimici, giardinieri. Non c'entra nulla con gli artisti, lo so. Eppure tutte queste persone non passano solo a trovarci: vivono qui per un po' qui, con naturalezza e consuetudine, come in un Kibbutz. Litigano, mangiano, ridono, strillano, riflettono. Ecco, tutti loro, come in una colonia d'artisti, mi raccontano ogni giorno un pezzo della loro storia e la mescolano alla mia. Nella mia immaginazione anche a Saint Ives, a Darmstadt, a Pont Aven, accadeva qualcosa di simile. E dava vita a quadri e sculture che si portano dentro questo concentrato di cose, questa essenza vitale.


Tornando alla Tate, abbiamo fatto un giro tra le opere della mostra temporanea Images Moving out onto space per intuire poco dopo, attraverso le imponenti vetrate del museo, che il cielo si stava aprendo e il sole faceva capolino tra le nuvole. Così, cambio immediato di programma: siamo scesi lungo la spiaggia e siamo tornati in hotel per recuperare le nostre scarpe da trekking. La punta estrema della Cornovaglia, Land's End, ci stava aspettando. L'abbiamo raggiunta percorrendo la strada costiera, incrociando traversate di pecore, scorci strepitosi sul mare, miniere in rovina (ho scoperto che a Saint Ives hanno vissuto anche tantissimi minatori). Appena arrivati, abbiamo seguito il suggerimento della Lonely Planet: abbiamo lasciato l'auto al parcheggio e abbiamo saltato a pie' pari l'orrido centro servizi (una sorta di inutile e brutto luna park). Pochi passi più in là si apriva uno degli scenari più sorprendenti che io abbia mai osservato. Una distesa di oceano blu intenso, intarsiato dalla schiuma delle onde. Speroni rocciosi, colline verde brillante punteggiate da macchie viola di edera profumata e fiori di campo gialli e arancio. Un tappeto erboso morbido e incantato proteso verso il mare. Più ci si allontana dall'inizio del percorso, più i panorami si inaspriscono e si fanno più autentici grazie alla solitudine che ne deriva (la maggior parte dei turisti si accontenta del primo scorcio). E' come se i luoghi guardati da meno occhi si preservassero più incontaminati conservando un'energia più nitida e possente.
Dopo il nostro tour dall'alto, il desiderio di scendere verso il mare, i suoi fari, le sue correnti, ha cominciato a risuonare come un canto di sirena. Ci siamo quindi diretti verso la baia di Porthcurno, dove attraversata una profumata pineta ci si trova su una piccola spiaggia di sabbia dorata, una gelida piscina naturale dove il sole brilla vividissimo rispecchiandosi tra rocce e acqua. Ric, come di consueto, ha cominciato la sua arrampicata per scovare per la sua macchina fotografica gli scorci più freschi. Io, come di consueto, sono invece rimasta in spiaggia e mi sono addormentata pensando ai messaggi segreti che erano passati dalla linea telegrafica sottomarina che collegava Londra e Bombay e che passava proprio da qui (tanto che uno dei punti di interesse è proprio il Museo del Telegrafo).
Prima di rientrare alla base per la doccia, ci siamo fermati al Barnoon Cemetery, il più antico
cimitero di St Ives. Situato su una collina che digrada verso il mare, il Barnoon è un luogo che trasmette pace e semplicità. Uno di quelli in cui, a dover scegliere, non dispiacerebbe trovare la famosa e temuta ultima dimora (detto così sembra di stare in un romanzo gotico, ma in effetti credo che chiunque lo visiti si trovi a pensarlo). Tra i suoi "ospiti" più celebri, c'è un pittore pescatore che mi piace molto. E' Alfred Wallis, artista nato a Penzance a metà Ottocento e trasferitosi quindi a St Ives. La sua è una di quelle pitture che definiamo "primitive" o "naif": è essenziale, concreta, ridotta all'osso. Come disse Nicholson quando le conobbe, le opere di Wallis non sono pitture, sono "eventi attuali" e non poterono che influenzare gli artisti come lui, che negli anni Venti del Novecento cominciarono ad istallarsi a St. Ives alla ricerca di autenticità e bellezza. Penso che Alfred amasse particolarmente Barnoon. E che dall'alto della collina possa ancora apprezzare la costa quasi scolpita di quella punta di Cornovaglia.
Per la sera cercavamo un ristorante tipico per concludere la giornata portando anche nel gusto i sapori di queste terre. Abbiamo così scovato un delizioso bistrot (d'estate è indispensabile prenotare) poco lontano dal porto. Il St Andrew è un po' un'anomalia tra i locali di St. Ives, dove il fish & chips va per la maggiore. Si prende i suoi tempi, crea piatti con prodotti semplici ma mescolati in modo originale. Ti accoglie in un'atmosfera francese, un po' bretone e un po' parigina, e con un antipasto di pane fatto in casa e burro freschissimo. Io mi sono data alle verdure, con degli asparagi memorabili e formaggio di capra profumatissimo (piccolo inciso: il soprannome con cui la sorella Vanessa chiamava Virgina Woolf era Goat, capra, come mi ha ricordato di recente la serie tv sul gruppo di Bloomsbury appena lanciata dalla BBC). Ric ha optato per il salmone, forse con qualche salsa di troppo rispetto ai suoi gusti, ma comunque molto buono (mi ha detto) e certamente ben presentato. In questo caso non ci siamo fatti mancare nemmeno il dolce, dividendoci un adorabile Milk Chocolate Brownie affiancato da gelato al caramello salato.
Anche il day n. 3 volgeva alla fine. Mi sono addormentata come un sasso, quasi perdendo i sensi. E infatti di quella notte non ricordo nulla, se non il vociare tranquillo e cadenzato dei gabbiani oltre la nostra finestra. Chissà se il giorno dopo "sarebbe stato bello", mi chiedevo. Come in Gita al faro.



Giorno Uno

Giorno Due

Giorno Tre

mercoledì 19 agosto 2015

Da Broadchurch agli occhi dell'Amaryllis: viaggio lungo la Jurassic Coast, direzione Saint Ives

Giorno Due
Dopo un sabato decisamente intenso, la domenica mattina siamo partiti in direzione della costa. C'è da fare una doverosa premessa: come scegliere in quali luoghi fermarsi quando si hanno pochi giorni ed è necessario effettuare una selezione? Sicuramente ci sono le guide, ça va sans dire. Epperò se come me e Riccardo hai più una memoria, e un'immaginazione, visuale, occorrono altri strumenti. Ric usa Pinterest (che, come potete vedere qui, è per lui uno strumento di studio a tutto tondo). Ovverosia nel caso dei viaggi: effettua una ricerca coi nomi delle diverse località in lizza per la nostra sosta e individua "visualmente" quella che più risponde al nostro gusto. Io sono più spartana e disordinata (chi lo avrebbe mai detto?? :-). Da un lato mi accontento di un'analoga ricerca su Google Images; dall'altro lascio correre l'ispirazione. Così è stato in questo caso. Nei giorni precedenti alla partenza, infatti, tra una mail di lavoro, una sessione di stiratura magliette (detesto stirare, proprio lo detesto) e la spesa per le scorte alimentari di Jinny, la nostra micia, mi sono guardata la seconda serie di Broadchurch. Non sapevo dove fosse stato girato, ma il sesto senso mi diceva che era bene controllare. Ho scoperto così West Bay, l'incantevole località scenario della serie. 
Ed era proprio lì: lungo la Jurassic Coast in cui volevamo far tappa. E così è stato. Il cielo era terso e la luce intensissima quel giorno. Passeggiare lungo quelle coste antiche, anzi preistoriche, è stato uno dei momenti liberatori del nostro viaggio. Uno di quelli in cui respiri a fondo di fronte alle onde e fai il carico di energia positiva e selvaggia che vorrai portare con te per tutto l'anno. Mentre Ric scalava letteralmente la roccia ("Cavolo, è piuttosto pericoloso lassù: non ci sono protezioni!" e io "Eccerto, è pure morto un bambino. Cioè nelle serie tv intendo!"), io me ne sono stata sdraiata tra rocce e sabbia. E forse per certi versi sono ancora lì... Il pranzo lo abbiamo fatto in una vecchia stazione adibita a bar con tanto di baguette al formaggio. Per chi avesse qualche giorno in più, mi sento di consigliare una capatina a Lyme, cittadina poco distante che Jane Austen visitò a inizio Ottocento e che utilizzò come set di parte di Persuasione
Anzi, come mi segnala mia sorella Dedè (che è un'appassionata di romanzi storici), proprio a Lyme è ambientato anche Strane Creature, un romanzo dagli echi austeriani della Chevalier in cui la protagonista raccoglie in spiaggia misteriose e primitive ossa di esseri vissuti migliaia di anni prima.
Ripartiti da West Bay, per noi invece la direzione da prendere era finalmente verso la punta della Cornovaglia, giù verso Saint Ives, dove avremmo pernottato tre notti. La scelta della meta, anche in questo caso, era stata effettuata "a pancia". C'era qualcosa che mi attirava laggiù e dentro di me pensavo si trattasse del fatto che rievocasse Saint Malo, uno dei luoghi che più amo al mondo in senso assoluto e che ho scoperto l'estate scorsa nel corso dell'on the road tra Normandia e Bretagna. A Saint Ives a inizio Novecento alcuni artisti inglesi si sono riuniti in una colonia, un po' come accaduto a Pont Aven per intenderci. E si sono lasciati ispirare dall'oceano, dalla natura indomita, dal fascino dei pescatori e della vita di un tempo. Eppure c'era di più. Passo passo avrei scoperto non solo che poco lontano c'era il faro che ispirò Virginia Woolf per To lighthouse, ma proprio la casa dove visse e da cui lo vedeva. Proprio a Saint Ives, vicinissima al nostro bed&breakfast. Prima di dedicarmi a Virginia, comunque, ecco qui la meraviglia di luogo in cui abbiamo dormito tre notti. In una camera vista mare, con un divanetto proprio di fronte alla finestra.
Lì seduta ho letto, studiato, ammirato l'oceano, sorseggiato tè caldo alla menta. La colazione, preparata ogni mattina da Lynn e John, era a base di yogurt, frutta fresca, pane tostato, uova, salsicce (vegetariane naturalmente), pomodorini al timo e croissant. 
La prima esplorazione della cittadina l'abbiamo fatta la sera stessa. Una passeggiata sino al porticciolo, cena a base di fish & chips per Ric e con porzione doppia di chips e purea di piselli e menta per me (non la avevo mai provata ed è deliziosa!) abbinata a un buon bicchiere di sidro. Sul far del tramonto, siamo scesi in spiaggia a goderci la bassa marea. Proprio come facevamo a Saint Malo. L'aria era umidiccia e silenziosa, i cani facevano il bagno felici, i gabbiani volteggiavano e verseggiavano tra le nuvole. Come ne Gli occhi dell'Amaryllis, un libro splendido della collana Gaia Junior preso in prestito in biblioteca quasi un milione di anni fa (il fatto che io adori le biblioteche lo trovate raccontato qui). Un reperto da Jurassic Coast, oserei dire.

Insomma, la città delle ispirazioni ci dava, a suo modo, il benvenuto. 

martedì 18 agosto 2015

In viaggio verso il Devon e la Cornovaglia: il giorno uno tra la casa di Jane, pietre secolari e cattedrali in mezzo ai prati

Siccome il viaggio di quest’anno è stato più intenso e rivelatore che mai e visto che alcune indicazioni possono essere utili ai prossimi viaggiatori, eccomi qui con un po’ di appunti sulla mia otto giorni nel Sud della Gran Bretagna. Del resto ricordare tutto attraverso la scrittura mi permette di rigodermela un po’. E di rivivere quei momenti pieni di luce e di bellezza direttamente da qui, sdraiata nel giardino di Montaletto.

Giorno Uno



Arrivati a Londra e ritirata la nostra fiammante auto a noleggio, ci siamo subito messi in moto verso Chatwon e la casa di Jane Austen, che desideravo visitare da secoli! Dall’aeroporto di Gatwick, con l’indispensabile stradario della Michelin alla mano, ci si mette poco più di un’oretta.  Sul sito ufficiale del museo ci sono tutte le indicazioni degli orari e, con un pizzico di fortuna come quella che ho avuto io, potrebbe capitarvi di assistere a una riunione delle Alresford Lacemakers, un meraviglioso gruppo di signore che vi illustrerà l’antica arte del merletto sorseggiando una tazza di tè fumante. Si tratta di una tecnica difficilissima e affascinante che si sposa perfettamente con l’ambiente circostante e l’atmosfera ottocentesca. Io sono stata guidata da una paziente lady dai capelli bianchi nel creare un pezzettino di decorazione proprio nel centro del giardino. Ci ho messo 
molto più tempo del dovuto, ma infine ce l’ho fatta! Sulla casa di Jane potrei naturalmente dilungarmi ore, ma preferisco di gran lunga indirizzarvi al mio sito di riferimento, quello della straordinaria Silvia Ogier che ogni appassionata della Austen dovrebbe aver salvato tra i preferiti sul proprio browser. Ecco qui il suo pezzo sulla visita a ChawtonIn calce all'articolo trovate tutti i link per esplorare angolo dopo angolo la casa di Jane, dove il profumo di lavanda vi investirà ad ogni passo. L’unica nota personale che mi sento di dover aggiungere è che l’emozione più grande per me sono stati proprio il giardino, gli alberi, le piante. 


L’idea che siano lì da quando c’era Jane, che con certezza li abbia sfiorati, ci sia seduta accanto, abbia sentito lo stesso intenso odore di fiori… ecco la trovo una cosa avvincente come poche altre al mondo. E così ora provo a ricercare quelle sensazioni ri-leggendo i suoi romanzi.

Sempre seguendo il suggerimento di Silvia, per pranzo -mentre intorno a noi decine di auto d’epoca si aggiravano per le stradine di Chawton- ci siamo fermati al Cassandra’s Cup, una sala da tè dove i sandwich sono gustosissimi e le torte deliziosamente deliziose. E’ esattamente di fronte alla casa di Jane e porta il nome di sua sorella. Trovate i dettagli qui  e il menu quiLa lettura che consiglierei prima di questo viaggio è sicuramente Jane Austen: i luoghi e gli amici, edito in Italia da Jo March (uno di quegli editori gioiellino che seguo sempre con piacere e che già dal nome offre naturalmente il migliore dei programmi). Si tratta del racconto di viaggio di due sorelle, Constance ed Ellen Hill, che nel 1901 “infilarono in valigia taccuini e matite, noleggiarono un calesse vecchio stile e partirono alla ricerca di “Austenland”, come chiamarono, in modo bizzarro e ingegnoso, il mondo di Jane Austen – quel luogo fisico (l’Inghilterra della sua vita e dei suoi romanzi) ma anche letterario (il microcosmo delle persone della sua vita ma anche dei suoi personaggi) e soprattutto metafisico (la fonte dei sentimenti generati nei suoi lettori) sul quale regna incontrastato e sempre rigoglioso il suo genio creativo, da oltre duecento anni”. Siccome in libreria faticavo a trovarlo, l’ho prenotato direttamente online.  Ecco qui il link.  Subito dopo pranzo, siamo ripartiti verso Stonehenge da cui ci divideva un’altra oretta di auto. Avevo prenotato la nostra visita alle 17.30 attraverso il sito ufficiale come suggerito dalla Lonely Planet. In realtà avrei voluto realizzare un piccolo sogno: visitarlo la sera tardi con un gruppo ristretto di persone ed entrare nel centro del cerchio. Per farlo ho compilato il form che trovate qui




Ma sono arrivata in ritardo e i posti erano già esauriti, quindi mi sono “accontentata” della visita tradizionale. Siccome c’era un grosso incidente stradale lungo la A30 (tanto che, proprio nel suo primo giorno di guida all’inglese, Riccardo si è visto costretto a guidare contromano –su direttive della polizia stradale, eh!!), ci siamo diretti a Stonehenge senza passare da Salisbury a lasciare le valigie. Abbiamo parcheggiato gratuitamente mostrando i nostri biglietti e abbiamo fatto una breve sosta al centro visitatori. Anche se eravamo in anticipo rispetto all’orario previsto per la visita, ci hanno permesso di accedere al sito senza problemi. Lo si raggiunge a piedi o in bus attraverso i campi di grano e, nonostante il gran numero di visitatori, mi ha impressionata. I corvi volteggiavano sulle pietre e l’atmosfera mi è parsa mistica e silenziosa come quella che avevo respirato a Carnac l’anno scorso. Certamente la visita in notturna deve essere ancora più forte e, se riuscite a prenotare per tempo, penso sia un’esperienza che valga la pena fare. Ma con la giusta concentrazione, anche in mezzo a persone che arrivano da tutto il mondo, non potrete che rimanere colpiti dalla potenza con cui queste opere mastodontiche fondono arte e natura. L’amica Benedetta consiglia una visita anche ad Avebury. Io non ce l’ho fatta per ragioni di tempo, ma sicuramente è un altro sito da segnare nel taccuino dei posti da visitare!


Ripresa la nostra auto, siamo partiti per Salisbury. Trovare il collegio dove avremmo pernottato non è stato semplice perché alcune strade erano chiuse alle macchine, ma l’attesa ci ha ripagati.  Riccardo di questo luogo si è innamorato, e io anche. Potete prenotare una stanza qui e se amate i soggiorni semplici ma suggestivi questo è il posto che fa per voi. Il Sarum College si trova infatti nel cosiddetto The Close, proprio di fronte alla cattedrale. Vi sembrerà di essere in un film di Miss Marple tanto è delizioso, o ancor meglio in un episodio di Padre Brown perché entrando potrebbe accadervi di trovare un buffo prete che fa battute sul suo abito, come è accaduto a noi. La sera passeggiare per la città e nel parco è stato incantevole. Salisbury è un gioiellino ed è anche vivacissima: gli scorci sul fiume Avon, i ragazzi sdraiati nei prati e quelli seduti a sorseggiare sidro o birra, i negozietti curati e… persino un Wagamama dove ci siamo fermati per una cena leggera dopo l’abbuffata del pranzo. Una serata meravigliosa (nel luogo dove si trova la Magna Carta e che per questo ha un po' il sapore della libertà), accompagnata da una luce cangiante e una “pace vissuta”, come solo quella delle cittadine antiche ma allo stesso tempo piene di studenti sanno regalare. La colazione al college è buona, fresca e abbondante. Io mi sono data ai cereali e poi pane tostato, burro (in Inghilterra è eccezionale) e marmellate. Dopo una notte in cui ero svenuta dalla stanchezza e dal pienone di sensazioni… ci voleva proprio!

To be continued...

Giorno Due

Giorno Tre
ps. Le ultime due foto sono di Riccardo Bianchi, mio fotografo preferito e molto altro!