sabato 30 gennaio 2010

THE HIGH LINE

Per chi non lo conoscesse, per chi volesse curiosarem respirare aria buona e far sorgere il verde dai quadrati di cemento...

http://www.thehighline.org/

Ne vale davvero la pena :)

In verde

martedì 26 gennaio 2010

MY COM FACTORY è online!

Oggi presentiamo...

http://www.mycomfactory.com/

Per adesso è solo l'home page... ma stiamo arrivando!!!

venerdì 22 gennaio 2010

E' tempo di Apple Pie

Arriva il week end e mi metto all’opera. E’ ora di Apple Pie. Sì perché cucinare è come fare un progetto, come coltivare un giardino: ci vuole passione, pazienza e voglia di fare. Ci vuole innanzitutto il desiderio di creare qualcosa di bello e ben fatto.

Ovviamente la gioia del mio fidanzato aumenta se tutti questi buoni propositi si materializzano in un Apple Pie calda di forno.

E allora: pronti, via. Inizio preparando l’impasto con farina, un pizzico di sale, burro e un bicchiere di acqua ghiacciata e il burro.

Creata la pallina di impasto la avvolgo ben bene con della pellicola trasparente e la ripongo in frigorifero a riposare almeno una quarantina di minuti. Con le quantità di farina son stata abbondande perché i forum dicevano che quasi sempre mancava l’impasto per la copertura totale dell’Apple Pie! E un Apple Pie senza copertura… non è un Apple Pie.

A questo punto passo al ripieno. Sbuccio le mele e le taglio a spicchi sottili. Le metto in una ciotola e aggiungo il succo di un limone e la sua buccia grattugiata. A seguire: farina, un pizzico di sale, cannella, vaniglia, noce moscata, una tazza di zucchero. E mescolo il tutto. Vien fuori una vera delizia: la mangerei anche cruda.

Passati i 40 minuti, riprendo la pasta dal frigo e la divido in due palline simili per dimensioni. Stendo una pallina per bene e la uso per foderare la mia tortiera. Posiziono il ripieno arricchito di tocchetti di burro, stendo la seconda pallina e ricopro la mia Apple Pie che all’occorrenza decoro a piacere con la pasta avanzata (io ho fatto delle foglioline stilizzate, molto stilizzate :) I bordi li schiaccio per bene con una forchetta.

A questo punto è l’ora del forno, preriscaldato a 200 e abbassato a 180 e a 170 durante la cottura.

E l’Apple Pie è cotta quando è dorata in superficie ma ben resistente anche sul fondo.

Very Delicious: servita con una pallina di gelato alla vaniglia 

mercoledì 20 gennaio 2010

La curiosità: insubordinazione allo stato puro




Questo mio antico scritto è dedicato a Roberto Camerani

Ex deportato, amico e maestro

Per cui la vita nonostante tutto-

“l’è bella”



Devo chiedervi ora di fare un salto indietro nel tempo e di immaginarvi in un posto diverso da questa sala.

E’ il 10 maggio 1933. Siamo a Berlino nella Bebel platz, poco distante dai più importanti musei tedeschi. Ma siamo anche a Francoforte, ad Amburgo, ad Heidelberg.

In questo momento i libri stanno bruciando.

Nelle città universitarie più importanti d’Europa, gli studenti, la gente comune, i passanti anche, stanno bruciando i libri.

Sono libri diversi: di oppositori politici, di “intellettuali comunisti”, per esempio. Sono libri che non corrispondono allo spirito tedesco.

E sono i libri di autori ebrei. Il tentativo nazista di annientare il popolo del libro parte, per l’appunto, dalla distruzione dei libri. In questo momento bruciano –metaforicamente e non- Freud, Einstein, Stefan Zweig, Schnitzler, Meyrink. Nella Germania nazista bruciano almeno cento milioni di libri.

E drammaticamente, come intuì il poeta, dove si bruciano i libri si finisce- prima o poi- per bruciare anche gli uomini.

Se la cancellazione del popolo ebraico -dell’Altro, del Diverso- comincia simbolicamente in questo 10 maggio 1933 in cui gli strumenti con cui si tramanda la memoria- i libri- vengono annientati, allora recuperare le storie di quei libri, la conoscenza che essi tramandavano, è un primo passo verso il recupero della memoria. Andare in archivio, scartabellare, spulciare, spiare, significa ricostruire qualcosa che rischiava di andare perduto.

Fabio prima vi parlava dell’importanza dell’oblio. Le sue parole sono tanto più sconvolgenti in questa giornata dedicata al ricordo. Ma esse sono profondamente vere. Sì, perché nessuno di noi potrebbe in fondo sopravvivere in questa sala (anzi in questa Bebel Platz in cui ci troviamo adesso, di fronte al fumo del rogo dei libri), nessuno di noi potrebbe sopravvivere se ricordasse integralmente, in ogni istante, in ogni luogo della sua mente e del suo corpo, lo sterminio di ebrei, omosessuali, rom, testimoni di geova e oppostori politici assassinati nei campi di sterminio nazisti. Nessuno di noi sopravviverebbe avendo costantemente sotto gli occhi l’ingresso di Auschwitz e ciò che esso rappresenta.

Eppure, allo stesso tempo, questa dimenticanza temporanea, la dimenticanza parziale che ci fa sopravvivere e agire, non può che essere il frutto di una memoria ancora più profonda. Il tentativo della Germania del dopoguerra di rimuovere quanto successo, di non portare il lutto ma di fare sbrigativamente ammenda, ha portato infatti a conseguenze disastrose.

L’oblio volontario diventa, in questo caso, crimine gravissimo, perché riduce la memoria a ricordo posticcio. Quanto è accaduto esiste sempre: per quanto si tenti di rimuoverlo, esso ritorna costantemente. In un racconto di Kafka, un padre di famiglia si confronta con un cruccio atroce: nella sua casa vive un essere senza forma precisa, senza precisa identità. Odradek, così si chiama, a volte sparisce ma immancabilmente fa poi ritorno alla sua casa. Odradek è -in Kafka e per noi altri- il dimenticato che di continuo si affaccia alle nostre menti, per quanto in forma distorta e irriconoscibile. Finchè non prendiamo coscienza di lui, esso rimarrà il nostro cruccio, rimarrà qualcosa con cui non abbiamo ancora fatto i conti. Odradek, infatti, non potrà mai morire. La sua esistenza continuerà anche quando avrà fine la nostra. E’ come un sacco di iuta con tutto ciò che ci appartiene. Spazzatura compresa.

Molti figli di nazisti si sono tolti la vita, molti altri sono diventati naziskin; in pochi hanno potuto elaborare una via alternativa: in entrambi i casi Odradek ha distrutto le loro esistenze e quelle di altri. A volte, del resto, il ricordo delle vittime dei campi di sterminio ha dimostrato la propria insostenibilità in suicidi avvenuti molti anni dopo la fine della guerra: Jean Améry si è tolto la vita in una camera d’albergo di Salisburgo nel 1978, Primo Levi ha messo fine ai suoi giorni nove anni dopo nel suo appartamento torinese.

Per sopravvivere dunque, è vero, bisogna lasciarsi andare a brevi dimenticanze. Mai però, mai possiamo dimenticarci di queste dimenticanze, mai possiamo scordarci che per vivere abbiamo messo da parte qualcosa per alcuni istanti; mai dobbiamo dimenticare di aver dimenticato. E allora fare i conti col passato significa anche lasciare che esso ci tocchi nell’intimo, come nell’intimo ci hanno toccato le scoperte dell’archivio. Lasciare che le vite e le storie degli altri deformino le nostre, che sollecitino in noi riflessioni, raccoglimento, intuizioni. In qualche modo, dobbiamo essere in grado di prendere Odradek per mano, di guardarlo con attenzione, di farlo nostro e di capirne la deformazione. Prendere la sua “non forma” di dimenticato e renderlo un Odradek nuovo, una forma nuova, una nostra personale forma di resistenza non solo ai crimini nazisti, ma ad ogni ingiustizia compiuta contro chiunque in qualunque parte del mondo.

Citare ad uno ad uno i nomi dei sei milioni morti nei campi e citare sempre uno a uno i cento milioni di libri bruciati nei roghi nazisti.

Più semplicemente, citare i nomi dei ragazzi espulsi dal Regio Liceo Ginnasio Cesare Beccaria dopo averli recuperati nei sotterranei di via Linneo.

Usare la cultura, la conoscenza, la curiosità come forma primaria di resistenza.

Chi nemmeno sa di avere Odradek nella propria casa, sarà più facilmente vittima delle distorsioni della storia, delle invenzioni revisioniste, delle parole prive di fondamento. Chi invece con Odradek fa due chiacchiere, non sarà altrettanto abbindolabile. Come sostiene Nabokov, davvero La curiosità è insubordinazione allo stato puro. Del resto, nessun libro di storia potrà mai raccontarci cosa si prova mentre si varca la soglia di una camera a gas. E’ qui allora che deve concentrarsi la nostra capacità di identificarci con altri esseri umani. E’ qui che bisognerebbe utilizzare, nel senso più profondo, la nostra immaginazione e non nella falsificazione delle prove. Solo uno stupido oggi potrebbe negare l’esistenza dei campi di sterminio. E allora questa nostra immaginazione, che ci ha portato poco fa in Bebel Platz e che ci porta ora di fronte alle porte di Auschwitz, può essere sollecitata a maggior ragione da quei cento milioni di libri bruciati e dalle loro storie “perché nulla difende l’essere vivente contro la stupidità dei pregiudizi, della xenofobia, delle ottusità, dei nazionalismi discriminatori, meglio dell’ininterrotta costante della grande letteratura: l’uguaglianza essenziale delle donne e degli uomini a tutte le latitudini e l’ingiustizia rappresentata dallo stabilire tra loro forme di discriminazione, dipendenza, sfruttamento” (Vargas Llosa).

Rivendicare il potere della letteratura e dell’immaginazione significa, dunque, rivendicare un diritto primario dell’essere umano, un diritto di cui lo stesso Primo Levi si riappropria nel bel mezzo del campo quando recita Dante per un compagno di prigionia.



Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca



Considerate la vostra semenza

Fatti non foste a viver come bruti

ma per seguir virtute e conoscenza



Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.



Leggere Dante significa in quel momento recuperare la propria identità di uomo, essere per un attimo fuori dal campo di sterminio, potere per una manciata di secondi respirare ancora da uomo libero. Alcuni libri servono a questo: sono fatti per respirare. Per un momento ci permettono di cambiare le cose e di farci perciò intuire che esse possono andare diversamente.



Il finale di Buongiorno notte, il film di Bellocchio sul rapimento di Moro, ci mostra Moro che se ne torna a casa libero. Le ultime pagine di un bellissimo romanzo di Safran Foer Molto forte, incredibilmente vicino riproducono- al contrario però- i fotogrammi di un uomo che si getta dalle torri gemelle la mattina dell’11 settembre. Se le fate scorrere velocemente quell’uomo torna di sopra. Si salva, come Moro.

Quello che queste opere d’arte vogliono comunicarci non è un falso storico. Sappiamo benissimo che Moro venne ammazzato e abbandonato in una Renault rossa in via Caetani. Sappiamo benissimo che quell’uomo si buttò giù dalla torre e finì di sotto.

Quello che ci dicono è che la prossima volta Moro potrebbe salvarsi, dovrebbe se -come uomini- abbiamo capito qualcosa. E dicono che per aerei conficcati in grossi torri, no: non ci deve essere una prossima volta.

Che dobbiamo impedire che in futuro ci siano nuovi campi di sterminio.

In questo senso, credo, Fassbinder sostiene che l’arte libera la testa. Essa ci sollecita a pensare, a cambiare il futuro, a deformarlo, cioè a dargli una forma nuova rispetto a quella che il passato ha già drammaticamente avuto.

Per questo penso che sì, anche dopo Auschwitz si possa e si debba fare arte, per quanto in forma diversa, naturalmente. L’arte è espressione del nostro essere umani, del nostro desiderio di tulipani oltre che di pane. L’arte di Dante rende l’anima a Levi in una situazione estrema, molto più di quanto avrebbe potuto fare una tavola imbandita.

E allora mi sembra che il monumento alle vittime della Shoah del Cimitero Monumentale di Milano sia tanto più significativo quanto più scheletrico e spoglio si presenti ai nostri occhi. Come a dire: siccome di questa atrocità non potrei parlare, in quanto opera d’arte, con mezzi tradizionali, uso un linguaggio diverso, linguaggio di sintesi assoluta e di schiettezza estrema. Ciò che evoco è molto più forte di ciò che potrei mimeticamente rappresentare.

Allo stesso modo il Museo Ebraico di Berlino di Daniel Libeskind racconta, nella sua deformazione di edificio contorto e privo d’ingresso, una storia che solo noi con la nostra mente di spettatori e la nostra sensibilità di esseri umani possiamo comprendere e completare.



Per concludere mi piacerebbe leggere una breve lettera di una studentessa di Teheran che scrive



“La mia fantasia ricorrente è che alla Carta dei Diritti dell’Uomo venga aggiunta la voce: diritto all’immaginazione. Ormai mi sono convinta che la vera democrazia non può esistere senza la libertà dell’immaginazione e il diritto di usufruire liberamente delle opere di fantasia. Per vivere una vita vera, completa, bisogna avere la possibilità di dar forma e espressione ai propri mondi privati, ai propri sogni, pensieri, desideri; bisogna che il tuo mondo privato possa sempre comunicare col mondo di tutti. Altrimenti come facciamo a sapere che siamo esistiti?”.



Io sono convinta che se sapremo impedire altri roghi di libri e di idee, altri roghi di pensieri e culture, in nessun modo e in nessun luogo accetteremo più che si brucino esseri umani, che si cancelli il diverso, il non allineato.

Sherazade in fondo salva la propria vita e quella delle altre donne facendo leva sul diritto all’immaginazione e al racconto, no?

martedì 12 gennaio 2010

E' nata My Com Factory

E' nata My Com Factory ovverossia:
My Community Factory.
La mia fabbrica comune. La vostra.
Chi ha già letto queste pagine lo sa: il nome si ispira ai giardini di New York.
My Com Factory è uno spazio mentale e concreto allo stesso tempo. Uno spazio di cui, come per i community garden, ci riappropriamo oggi per farne un luogo di creatività e di espressività, un luogo di costruzione in cui dar corpo alle proprie personali interpretazioni del mondo e alla rappresentazione che di esso vogliamo dare.
Se un tempo per dar luogo al proprio modo di essere si aveva bisogno di “una stanza tutta per sé” , oggi la nostra vita ha un senso se si spinge oltre le mura di quella stanza inondando l’intorno di tasselli di pensiero quotidiano.
My Community Factory si prefigge dunque progetti “a regola d’arte”, progetti amati e fonte di soddisfazione per chi li realizza e per i suoi committenti.


E si occupa di Comunicazione culturale e aziendale, Strategie di comunicazione, Relazioni pubbliche, Relazioni con la stampa, Organizzazione di eventi e conferenze stampa.


Per chi volesse saperne di più: luana.solla@mycomfactory.com oppure luana@delabo.it.


lunedì 11 gennaio 2010

NEI GHETTI D´ITALIA QUESTO NON È UN UOMO di Adriano Sofri

Di nuovo, considerate di nuovo
Se questo è un uomo,
Come un rospo a gennaio,
Che si avvia quando è buio e nebbia
E torna quando è nebbia e buio,
Che stramazza a un ciglio di strada,
Odora di kiwi e arance di Natale,
Conosce tre lingue e non ne parla nessuna,
Che contende ai topi la sua cena,
Che ha due ciabatte di scorta,
Una domanda d'asilo,
Una laurea in ingegneria, una fotografia,
E le nasconde sotto i cartoni,
E dorme sui cartoni della Rognetta,
Sotto un tetto d´amianto,
O senza tetto,
Fa il fuoco con la monnezza,
Che se ne sta al posto suo,
In nessun posto,
E se ne sbuca, dopo il tiro a segno,“Ha sbagliato!”,
Certo che ha sbagliato,
L´Uomo Nero Della miseria nera,
Del lavoro nero, e da Milano,
Per l´elemosina di un´attenuante
Scrivono grande: NEGRO,
Scartato da un caporale,
Sputato da un povero cristo locale,
Picchiato dai suoi padroni,
Braccato dai loro cani,
Che invidia i vostri cani,
Che invidia la galera(Un buon posto per impiccarsi)
Che piscia coi cani,
Che azzanna i cani senza padrone,
Che vive tra un No e un No,
Tra un Comune commissariato per mafia
E un Centro di Ultima Accoglienza,
E quando muore, una colletta
Dei suoi fratelli a un euro all´ora
Lo rimanda oltre il mare, oltre il deserto
Alla sua terra - “A quel paese!”
Meditate che questo è stato,
Che questo è ora,
Che Stato è questo,
Rileggete i vostri saggetti sul Problema
Voi che adottate a distanza
Di sicurezza, in Congo, in Guatemala,
E scrivete al calduccio, né di qua né di là,
Né bontà, roba da Caritas,
né Brutalità, roba da affari interni,
Tiepidi, come una berretta da notte,
E distogliete gli occhi da questa
Che non è una donna
Da questo che non è un uomo
Che non ha una donna
E i figli, se ha figli, sono distanti,
E pregate di nuovo che i vostri nati
Non torcano il viso da voi.

La Repubblica" del 10.01.2010