Non
puoi immaginartelo – non è nella Natura Umana immaginarsi che bella
passeggiata abbiamo fatto in giro per l’Orto. – La fila di Faggi ha un aspetto
davvero molto bello, e così la siepe di Talee in Giardino. – Oggi ho saputo
che su uno degli Alberi è stata scoperta un’Albicocca [1].
C’è un acquarello dai colori caldi che molte delle lettrici di Jane Austen riportano probabilmente alla mente quando pensano al cottage della scrittrice a Chawton. Si tratta di un’opera che si rifà, secondo i più, proprio a un disegno della nipote di Jane, Anna. Osserviamolo ancora una volta e
soffermiamoci per qualche istante su atmosfera e dettagli. Se lasciamo liberi
lo sguardo e l’immaginazione, se proviamo a spingerci oltre i colori e a
cogliere suoni e odori di quel che vediamo, in un attimo ci troviamo
trasportati davanti alla facciata in mattoni rossi del cottage di Chawton.
Sembra che abbia smesso di piovere giusto un attimo fa e che la natura si stia
rischiudendo in tutta la sua bellezza davanti agli occhi della pittrice, e ora
anche davanti ai nostri. L’aria pomeridiana è impregnata del profumo delle
albicocche mature e dei frutti più deliziosi della campagna inglese, gli stessi
di quel Mercato dei Folletti descritto,
cinquant’anni dopo, da Christina Rossetti (1830-1894) con un simbolismo
preraffaellita che fa oscillare i suoi versi tra il mondo delle fiabe e un
misticismo a tratti sensuale.
Nello stagno lì di fronte (che nel marzo del 1816
rischierà di straripare a causa del brutto tempo)
qualche anatra nuota tranquilla; le indicazioni stradali su legno bianco che
ben conosciamo segnalano le vie; un cagnolino si scuote vivace, forse per
asciugarsi dall’acquazzone appena finito; alcune signore con un ombrellino e
una donna più anziana con un cesto tra le braccia camminano le une verso l’altra. Se poi spingiamo lo sguardo più in là, un poco
più verso destra sul fondo del quadretto, la vegetazione si fa più fitta, quasi
a creare una fresca galleria di fronde da cui emerge un carretto che procede
sulla terra ancora un po’ umida.
Figlia di James, il fratello maggiore di Jane Austen, l’autrice
di questo disegno, Anna (1793-1872), aveva sposato Benjamin Lefroy assumendone
il nome e lasciando poi ai posteri un breve memoriale sull’adorata zia.
Accanto al suo scritto, la giovane – che come Jane amava scrivere e prima del
matrimonio lavorava a un romanzo che nelle sue intenzioni si sarebbe intitolato
Which is the heroine? – ci tramanda anche
quest’immagine avvolgente e colorata che ci racconta, senza l’uso di parole,
come dovevano presentarsi al tempo il cottage e parte del giardino che lo
circondava.
A Chawton, non lontano da Alton, nello Hampshire, Jane, la
sorella Cassandra e la madre settantenne erano giunte nel 1809 insieme all’amica
di famiglia Martha Lloyd. A mettere a loro disposizione la dimora era stato
Edward (terzogenito degli Austen, adottato dai ricchi Knight), che aveva
proposto alle donne di trasferirsi a Godmersham Park nel Kent o a Chawton,
nello Hampshire. La scelta era infine ricaduta sulla casa di Chawton, non
lontana dalla chiesa di St. Nicholas, nel cui cimitero ancor oggi riposano la
mamma e la sorella della scrittrice.
Ma
com’era al tempo il giardino del cottage di Jane? Che specie accoglieva, che
colori e che forme presentava? E in che modo Jane lo viveva stagione dopo
stagione, rendendolo spesso personaggio silenzioso eppure vividissimo dei suoi
romanzi, primo tra tutti Mansfield Park?
Per immaginarlo, oltre al quadretto di Anna, ci viene in soccorso il ricordo che
della scrittrice fece un altro nipote, fratellastro della stessa Anna, James
Edward Austen-Leigh. Attraverso le sue parole scopriamo che la grande finestra
del soggiorno del cottage di Chawton fu chiusa e trasformata in libreria
(leggevano moltissimo le nuove inquiline), mentre ne fu aperta un’altra sul
lato
che permetteva di vedere solo prato
e alberi, dato che un’alta palizzata di legno e delle siepi di carpino impedivano la vista della strada. Da
ogni lato erano stati piantati degli alberi per creare un sentiero ombroso, tutto intorno al recinto,
che forniva spazio sufficiente per l’esercizio fisico delle signore. C’era un piacevole e irregolare
miscuglio di siepi, sentiero ghiaioso, frutteto ed erba alta da fieno, che cresceva su due o tre piccoli
recinti che erano stati riuniti.
Grazie al memoriale di James Edward
e alle lettere di famiglia, ecco dunque crescere ed intrecciarsi davanti ai
nostri occhi le specie che popolano il giardino di Jane. Per cominciare ci sono
appunto le siepi di carpino citate dal nipote. Si tratta di una specie rustica
che sopporta bene vento e gelate e presenta una chioma fitta e foglie verdi
dentellate, che d’inverno si fanno giallo-brune. Grazie a queste siepi, che si intravedono
anche nel disegno di Anna proprio a sinistra della casa, si delinea il
perimetro del giardino che appartiene alle signore Austen. Al suo interno un’infinità
di fiori, alberi, piante, frutti e verdure fa bella mostra di sé, sin dal
trasferimento delle quattro signore nella loro dimora. Ma procediamo senza
fretta, come impongono i ritmi di questo inizio di XIX secolo. Oltrepassiamo la
porta di questa casa tutta al femminile ed usciamo in giardino, in una fresca
mattina inglese, al fianco di Jane che, chiudendo dietro di sé la porta in
legno bianco, si sistema la cuffietta tirandola sopra le orecchie. Ecco che da
un lato, raccolta in cespugli folti, zia Jane ci mostra la reseda medicinale di
Cassandra, che ha proprietà calmanti e dai cui fiori gialli si derivano olii
essenziali o, con appositi procedimenti, anche un pigmento per tessuti giallo
brillante; chiudiamo gli occhi e concentriamoci per un momento sugli odori: in
un attimo le nostre narici incontrano il profumo fresco e dolcissimo degli albicocchi
e dei prugni che in primavera si ricoprono di fiori bianco-rosa e attirano le
api e gli insetti più curiosi.
Questa fragranza calda e avvolgente
è la stessa che invade le stanze di casa, se – come possiamo supporre – anche a
Chawton apprezzano i suggerimenti sull’utilizzo del potpourri contenuti in A New System of Domestic Cookery, l’elegante
volume di Maria Eliza Rundell del
1806 che segnerà la storia dell’economia domestica del Regno Unito: un libro pubblicato
da quel John Murray che dal 1815 sarà anche l’editore dei romanzi della Austen.
Poco più in là, nel punto indicato da Jane mentre con una mano si ripara gli
occhi dal sole, ci accoglie l’aroma delle fragole. La scrittrice le adora e a
loro dedica più di un passaggio in Emma,
come quello in cui Mrs. Elton ne nomina ben tre varietà: le Hautboy dai lunghi steli, le Chili del Sudamerica e le White Wood, simili alle nostre gustosissime
fragoline di bosco[5]. Nel giardino di Chawton, più fitti di quanto non
accada oggi, ci sono poi olmi, tassi e faggi imponenti, castagni frondosi, maestosi
abeti rossi: sono i luoghi del refrigerio della famiglia Austen. Alla loro ombra
si riposano le due Cassandra, madre e figlia, la nostra scrittrice e la cara
Martha.
Più ci addentriamo nel loro
giardino, più l’atmosfera che respiriamo al fianco delle nostre eroine si
conferma quella del «landscape garden» inglese, portato al suo splendore da
Capability Brown e dal suo successore Humphry Repton, cui non a caso Miss
Bertram indirizza Mr. Rushworth in Mansfield
Park. Poco lontano dai faggi c’è l’uvaspina di
cui va ghiotta proprio nonna Cassandra, che in giardino lavora con un robusto
grembiule verde, e poi gustosi ribes e lamponi, piante di malva (ideali per i
decotti), aggraziata malvarosa, un orto con piselli, patate, cetrioli, fagioli
scarlatti, meloni, zucche, carote, rabarbaro, pastinaca, barbabietole,
coriandolo, cipolle, aglio, pomodori, ravanelli… e ancora alveari e tanti,
tantissimi fiori.
Mentre raccoglie alcuni piselli per la zuppa di quest’oggi, Jane ci parla dei
cespugli di lavanda, da cui Martha deriva una deliziosa acqua profumata la cui
ricetta è trascritta nel suo Household
Book, e poi i phlox, che sbocciano all’inizio della primavera producendo
piccoli fiori a stella nei toni del rosa; ci sono anche i garofani dei poeti, coi
loro mazzetti di fiorellini con petali sfrangiati, bianco, rosa o rosso, con il
centro in colore contrastante; la giovane peonia; gli amatissimi lillà che
ricordano i versi di William Cowper, idolatrato dalla scrittrice e ricordato
anche da Virginia Woolf nella sua
Crociera; e poi le aquilegia colorate dai fiori complessi e le foglie azzurro-verdi
simili a felci; le dalie, i girasoli, gli anemoni, la malvarosa, i gerani e
anche le tante varietà di rose – Blush Noisette, Belle Amour, Shailers White
Moss, Gloire de France, Portland Rose, Rosa Mundi – che crescono rigogliose sin
da prima del trasferimento delle Austen a Chawton, quando un volenteroso
giardiniere predispone tutto per l’arrivo delle signore. Sono questi alcuni dei
fiori che compaiono anche sulla trapunta a patchwork cucita da Cassandra e dalle
sue figlie e ancor oggi conservata nel cottage: un cesto di fiori centrale,
sessantaquattro pattern differenti e
centinaia di pezze di stoffa a forma di diamante derivate da abiti o tessuti
usati. Un lavoro di cucito paziente, coloratissimo e metodico di cui la stessa
Jane parla in una delle sue lettere a Cassandra, ricordandole di recuperare altri
pezzi per il loro patchwork, che
sarà certamente utile nelle sere d’inverno quando la temperatura si fa più
rigida e l’aria più pungente.
Intanto l’erba è alta nel giardino
irregolare e indomato di Jane, anche intorno alla quercia che ha piantato con
le sue mani non senza fatica. Tra le piante, tuttavia, spunta un viottolo con
due panche di legno, semplici e grezze. È qui che le quattro donne si fermano a
riposare, leggere e cucire nei pomeriggi di primavera. E sempre qui, seppur
cento anni dopo, si commuoveranno le sorelle Constance ed Ellen Hill,
appassionate lettrici di Jane che nel 1901 infilano in valigia matite e taccuini
e partono a bordo di un vecchio calesse per un viaggio (il primo della storia
probabilmente) alla ricerca dei luoghi della loro amata scrittrice.
La
cura attenta delle quattro donne per il loro giardino si evince da piccoli e
preziosi dettagli della loro corrispondenza: Jane racconta che il giardino di
Chawton è tra i più invidiati della contrada, raccomanda a Cassandra di
acquistare a Godmersham semi di reseda, le descrive la bellezza della siepe di
talee o l’arrivo di un nuovo vivaista che controllerà il raccolto valutando
eventuali migliorie. E ancora racconta i lavori in giardino di molti dei suoi
vicini di casa e, certamente, soffre – come la Fanny di Mansfield Park – quando deve allontanarsi dalla sua oasi di refrigerio
per i suoi viaggi in città.
Prima non si era mai resa conto
di quanto la rendesse felice l’inizio e il progredire della vegetazione. Quanta vivacità fisica e morale derivasse
dall’osservare l’avanzamento di una stagione che non poteva, nonostante i capricci del tempo, non essere incantevole,
dal vedere quel rigoglio di bellezza, dalle
prime fioriture, nell’angolo più caldo del giardino della zia, al risveglio
delle foglie nei campi coltivati
dello zio, alla gloria dei suoi boschi. Perdere piaceri del genere non era poca
cosa; perderli perché si trovava
stipata e reclusa in mezzo al chiasso, all’aria cattiva, ai cattivi odori, che sostituivano la libertà, la
freschezza, la fragranza e il verde, era infinitamente peggio.
È
dunque un giardino pittoresco quello dell’Inghilterra di questi anni. E tale è quello
delle signore Austen.
Ma è un pure un giardino che diventa protagonista culinario, creatore di quella
felicità e di quel refrigerio domestici che Jane ha saputo raccontarci con
ironia e delicatezza. Così, i ricchi prodotti dell’orto di Chawton prendono
vita e invadono di profumo la cucina del cottage: zuppe di verdure, gustosi budini,
frittelle e torte di mele, marmellate e composte di frutta da accompagnare alle
focaccine di Bath, purè di patate da assaporare assieme alla selvaggina o all’oca,
oppure al formaggio tostato che Jane tanto ama. E ancora gelatina e idromele,
polpette, bolliti, tisane e dolcissimo miele. La bellezza della natura e della
naturalità viene così contrapposta, anche in cucina, all’artificio dei giardini
(e delle ricette) classici e barocchi. Non si tratta soltanto di una questione
di stile, ma di un modo diverso di intendere il mondo, di considerare l’autorità
e l’assolutismo e persino il desiderio di libertà e di indipendenza.
L’informal garden inglese si configura
come un movimento sociale, culturale ed economico. Tra gli artefici di questa
nuova concezione ci sono del resto proprio gli intellettuali: da Alexander Pope
(1688-1744) a Horace Walpole (1717-1797), da Capability Brown (1716-1783) a Humphry
Repton (1752-1818). La natura non è più costretta, ma può finalmente essere
mostrata nella sua irruenta e irregolare bellezza: diventa d’un tratto un campo
di prova dei principi di libertà. A tal punto è cruciale questa rivoluzione che
il «landscape garden» è considerato da molti la prima forma d’arte figurativa
autenticamente inglese.
Pensiamo, d’altro canto, che poco lontano da Chawton, a Selborne, aveva vissuto
anche il paesaggista e ornitologo Gilbert White (1720-1793), pastore umile e
dal carattere riservato, amante della natura e autore della Natural History of Selborne, un’opera
così importante da farlo considerare ancor oggi come uno dei padri della
moderna ecologia. Possiamo immaginare che Jane ne ammirasse il pensiero, così
come aveva approfondito probabilmente quello degli altri teorici del giardino.
Ma, conoscendola, mai dobbiamo scordarci quello che fa dire in Mansfield Park a Edmund, una frase che
in fondo sembra un po’ un concentrato di quanto lei stessa fa del suo giardino
e ancor più della vita indipendente: «“Non voglio influenzare Mr. Rushworth, ma
se avessi un posto da rimodellare, non mi metterei nelle mani di un artista di
giardini. Preferirei avere un grado di bellezza minore, scelto da me, e lo
attuerei man mano. Preferirei abitare con i miei errori più che con i suoi”»[13]. Poche
altre volte, ci sentiamo di dire, frase più libertaria fu pronunciata sui «liberissimi»
giardini all’inglese: un ribellarsi alle regole di chi si era ribellato. Anche
a costo di commettere qualche errore e di lasciar spazio all’imprecisione. E da
Jane questo, amandola come la amiamo, gioiosamente ce lo aspettavamo.
Muovendoci
a filo d’acqua, seguendo il cinguettare delle cinciallegre e del loro canto di
libertà, ci spostiamo ora un po’ di miglia e un secolo più in là, per
addentrarci nell’altro giardino cui vogliamo dedicare questo articolo: quello
di Monk’s House, il cottage di Virginia e Leonard Woolf a Rodmell. Quando
stanno cercando un luogo lontano da Londra in cui rifugiarsi, i Woolf visitano
diverse case. In realtà Monk’s manca di quasi tutti i comfort cui sono abituati
e ha stanze molto piccole. Ma Virginia non può che lasciarsi conquistare dal
gran diletto che ispiravano le dimensioni e la
forma e la fertilità e l’aria selvatica del giardino. Sembrava che vi fosse un’infinità di alberi da frutto: le prugne
erano così fitte che, gravando sulla punta,
curvavano in basso il ramo: fra i cavoli spuntavano fiori inattesi. C’erano
file curate di piselli, carciofi,
patate; i cespugli di lamponi avevano piccole piramidi pallide di bacche; e mi
sarebbe piaciuto fare una bella
passeggiata sotto i meli del frutteto, con lo spegnitoio grigio del campanile
ad indicarmi il confine .
Così, il 18 agosto del 1919, i
Verrall consegnano ai Woolf le chiavi della loro nuova casa, un luogo che
Virginia amerà profondamente e con cui costruirà un legame speciale, come era
stato per Talland House, la casa di St. Ives dove aveva trascorso così tante
estati quando ancora era bambina. A Talland House (che esiste ancora e che i
visitatori più curiosi possono ammirare districandosi lungo Albert Road, giusto
alle spalle del St. Ives Harbour Hotel) Virginia, Vanessa, Adrian e Thoby avevano
passato gli anni forse più belli della loro vita. Nella piccola cittadina della
Cornovaglia i piccoli Stephen pescavano, nuotavano, giocavano a cricket, esploravano
i boschi e le scogliere, dipingevano (Vanessa), chiacchieravano sino a notte
fonda assieme a Stella, si lasciavano confortare nel buio dalla luce del faro
di Godrevy. Qui imparavano a sentire con quell’intensità che Virginia
racconterà nel 1927 in Gita al faro.
Leslie e Julia Stephen avevano acquistato Talland House nel 1881 e vi passarono
la loro prima estate l’anno seguente, quando Virginia non aveva neppure un
anno. Julia era bellissima: sua zia, la fotografa Julia Margaret Cameron, l’aveva
immortalata in ritratti splendidi, il pittore preraffellita Edward Burne-Jones la
considerava una delle sue modelle più mistiche ed eleganti, lo scultore Thomas
Woolner aveva perso la testa per lei e l’aveva chiesta in sposa ancora
ragazzina. Sino alla morte di questa donna incantata, un’opera d’arte in sé
eppure piena di infinito senso pratico, le estati della famiglia Stephen trascorsero
lì, su quelle scogliere, come testimoniano le tante fotografie che li
ritraggono proprio nel giardino di Talland House o sulla soglia di casa (con
loro manca solo Laura, la figlia del precedente matrimonio di Leslie. La
piccola aveva un nonno celebre – William M. Thackeray – ma la sua salute
mentale era fragile e complessa e venne ricoverata in un istituto). Le estati
trascorrevano luminose e diamantine a St. Ives. Poi tutto cambiò: alla morte della
moglie, Leslie fu travolto dal dolore e vendette Talland House, il luogo che
Virginia definiva come il dono più prezioso che suo padre le avesse mai fatto. In
quel momento l’infanzia dei fratelli Stephen si chiudeva per sempre. La morte
della mamma e la perdita di Talland House furono un unico cocente dolore: la
ricostruzione di quell’infanzia chiusa tanto bruscamente e la ricerca della
madre perduta furono la ragione stessa per cui Virginia scrisse Gita al faro. Quando lo lesse, Vanessa scrisse
alla sua Ginia:
A
me sembra che tu abbia tracciato un ritratto della mamma che le somiglia più di
quanto avrei mai creduto possibile.
È quasi doloroso vedersela risuscitare davanti. Sei riuscita a far sentire la straordinaria bellezza del suo carattere... È
stato come incontrarla di nuovo… Essere riuscita a vederla in questo modo a me sembra un’impresa creativa che ha del
miracoloso.
È forse proprio il tentativo di
ricostruire lo stato di grazia di quegli anni che Virginia, pur continuando a
vivere anche a Londra, si reca spesso a Monk’s, alla ricerca di quella felicità
che Vanessa sembra aver costruito a Charleston Farmhouse assieme a Duncan Grant.
Perché il giardino di Talland House era l’Eden, uno spazio mentale a cui Virginia
ripensa entrando quasi in trance. A tal
punto Monk’s la riporta mentalmente a St. Ives che nel 1927 la Woolf scrive: «Ho
il desiderio superstizioso di cominciare To
the Lighthouse il primo giorno che passerò a Monk’s House […] padre, madre
e figlio in giardino; la morte; la gita in barca al faro».
All’inizio, però, le incombenze
pratiche del cottage mettono a dura prova i due «Lupi». La cucina s’inonda
spesso a causa degli acquazzoni, la casa è umida, i topi non mancano. Ma il
giardino li appassiona. In primis Leonard, che ne diventa quasi fanatico e
convince la scrittrice (il cui spirito resta prevalentemente «urbano») ad
aiutarlo con le erbacce, a raccogliere le mele (cioè a «meleggiare», come
dicono nel loro lessico familiare), a preparare fagiolini sott’aceto,
assaggiare il miele dei loro alveari e metterlo nei barattoli. Il giardino (e
soprattutto il frutteto) resta a tutti gli effetti uno dei luoghi più
suggestivi di Monk’s e appena i Woolf cominciano a guadagnare di più grazie ai
successi della loro Hogarth Press, investono diversi dei loro introiti in
terrazze, stagni, ninfee, carpe, polene di navi, statue (come quella di Venere
in cui riposano spesso le cinciallegre azzurre), grandi orci di terracotta, pesci
rossi, fontane. È di questi anni l’amicizia di Virginia con Vita Sackville
West, poetessa e scrittrice che sarà di ispirazione per Orlando e farà del suo giardino del Castello di Sissinghurst, nel
Kent, una delle sue opere più belle.
Nell’ottobre del 1934 Virginia
decide di spostare il suo studio in un angolo più appartato del frutteto, in un
punto da cui potrà godersi il panorama della marcite. La massiccia scrivania «piena
di carattere, affidabile, discreta, riservata» viene posizionata proprio di
fronte alla porta vetrata, così «annuserò una rosa rossa; solcherò dolcemente
il prato (mi muovo come se portassi sul capo un cesto di uova) mi accenderò una
sigaretta. Metterò sulle ginocchia la tavola da scrivere; e con grande cautela
mi immergerò, come un palombaro, nell’ultima frase che ho scritto ieri».
Nonostante i temporali, il cielo è
spesso azzurro a Monk’s. Gli uccelli cantano, le api ronzano, i crochi gialli
punteggiano il prato, il cocker spaniel Pinka (dono di Vita ed ispiratore di Flush)
scorrazza felice. E poi ci sono i narcisi, i peri, i meli, l’antico fico, il
calicanto, la lavanda profumata, l’edera, i ciliegi, le zinnie alte e ritte
(quante notti Leonard è costretto a uscire al buio con una lampada tra le mani
per salvarle dall’attacco delle lumache?), le campanule, i tulipani…
Oggi entrambi i giardini, quello di
Jane e quello di Virginia, sono ancora aperti e visitabili. Sono una parte «viva»
della loro vita e non sono poi così diversi da come si presentavano quando le
due scrittrici andavano a passeggiarci o a raccogliere fiori e verdure. Tra
loro Monk’s House e Chawton distano poco più di 60 miglia (un’ora e mezza in
auto) e sono meta di lettori e viaggiatori provenienti da tutto il mondo.
Cosa cercano (cosa cerchiamo) oggi
nei giardini di questi cottage? Probabilmente desideriamo respirare i colori, i
profumi, le sensazioni che le due scrittrici hanno sentito. Accumunate da un
intelletto straordinario, da sorelle confidenti e dal fatto di non avere figli
e una famiglia «tradizionale», Virginia e Jane sono due donne che nel proprio
giardino – invece o prima ancora che nella propria casa – hanno trovato una stanza tutta per sé: il luogo
privilegiato per la propria scrittura e, soprattutto, per la sua elaborazione.
Jane, mentre osservava fuori dalla finestra dal salotto, osservando il viavai sulla
strada dal suo tavolo rotondo, alzandosi di tanto in tanto per una passeggiata
sotto i faggi e nascondendo i fogli quando un ospite inatteso faceva capolino
nella stanza. Virginia, mentre lavorava alla sua scrivania, proprio di fronte
alla porta a vetri che dava sul frutteto.
Due osservatrici. Nel cuore del loro
giardino.
Un giardino tutto per sé.