martedì 18 novembre 2025

Il mal di Sarajevo



Questa è l’ultima fotografia che ho scattato a Sarajevo, ieri mattina, giusto un’oretta prima di andare in aeroporto. Il vento aveva già iniziato a fare il suo giro
(poi avrebbe impedito il volo e mi avrebbe messa su un pullman facendomi attraversare il paese per arrivare infine a casa a mezzanotte passata). Chi sa, mi anticipa che lo sentirò ancora dentro, quel vento, per un bel po’. Ma il mal di Sarajevo si era fatto sentire già prima che ci mettessi piede. Una nostalgia preventiva. Forse perché, come ha detto una nuova amica conosciuta poco prima partenza, a Sarajevo ci accomunano cose. E poi però venne questo weekend che sciolse ogni cosa e trasformò un pezzo di me in qualcosa di diverso che non pensavo di contenere, che ancora non conosco veramente ma che sicuramente so di voler amare. Come mi sono innamorata, perdutamente, ardentemente, immensamente di questa città mondo che si chiama Sarajevo.


domenica 16 novembre 2025

La Sarajevo socialista

Oggi abbiamo fatto una lunga passeggiata per esplorare la Sarajevo socialista. Quella in cui, come ci spiegava Ernim, se avevi la tessera del partito avevi l’istruzione e la casa e il lavoro assicurato (però per pregare, quale che fosse la tua fede, era meglio se restavi chiuso a casa tua). Abbiamo seguito la strada lungo il fiume Miljacka, superato le mosche e le chiese e le sinagoghe. Abbiamo passato il Ponte Latino dell’attentato di Gavrilo Princip e poi giù giù, verso il cubo giallo che ospitava e ospita l’Hotel Holiday Inn, da cui i giornalisti di tutto il mondo raccontarono la guerra e che oggi ancora funziona senza troppo lasciar spazio alla storia che gli appartiene. Abbiamo esplorato il museo storico, che mostra la vita durante l’assedio, e poi quello nazionale che è dedicato ai minerali, agli alberi, agli animali, alle archeologie e alle popolazioni della Bosnia. Un museo ottocentesco classico, questo secondo, in tutto e per tutto simile a quelli delle altre capitali europee. E poi accanto a lui la struttura di cemento e vetro e metallo ispirata a Mies van der Rohe, un esempio di modernismo perfetto che le cannonate hanno, curiosamente, tinto di brutalismo. Proprio lì sotto c’è il Cafe’ Tito, pieno di ragazzi e di insegnanti, di qualche nostalgico anche, e pure di bambini che si arrampicano sui carri armati tutto intorno e danno loro l’unico senso che dovrebbero sempre avere: essere nulla di più che macchinine da guidare lungo il prato mentre ci si arrampica tra gli alberi e si gioca a nascondino. C’è questa cosa disarmante e commovente a Sarajevo: non sempre hanno portato via le armi, non hanno nemmeno fuso tutte le granate e i proiettili e i missili. Li hanno trasformati. Ce lo ha ben spiegato ieri il ramaio Renan Hidić (che lavora qui coi suoi tre fratelli dopo aver ereditato l’attività dal padre che a sua volta la aveva ricevuta dal nonno): se prendi un proiettile e lo lavori con cura e lo tramuti infine in vaso da fiori istoriato con motivi ottomani, tu hai trasformato qualcosa nato per dare la morte in uno spazio dedicato alla bellezza e alla vita. In un verbo solo: hai disinnescato la bomba.








La Biblioteca Nazionale di Sarajevo

Nella notte tra il 25 e il 26 agosto 1992 una serie di bombe distrugge oltre 2 milioni di libri, manoscritti, lettere, riviste, documenti conservati nella Biblioteca Nazionale di Sarajevo, emblema di una cultura aperta, molteplice, plurale. Pompieri e impiegati cercano di salvare il salvabile e la bibliotecaria Aida Butorovic perde la vita. Poche settimane dopo, il violinista Vedran Smailović sfida i cecchini e si mette a suonare, lì in mezzo alle rovine. Lo ha già fatto pochi mesi prima, suonando per 22 giorni in memoria di 22 vittime del conflitto. A Sarajevo quando si parla dell’ultima guerra ci si riferisce a quella del ‘92. Noi visitatori non capiamo subito, l’ultima guerra per noi è quella del 1945 e dobbiamo fare un salto di pensiero per comprendere che qui anche le parole comuni hanno un significato tutto diverso. Perché questa è la città dove il festival del cinema nacque in pieno assiedo, dove il teatro continuò a funzionare, dove Susan Sontag mise in scena il suo Godot durante la guerra, dove Zatklo Dizdarevic e il suo giornale continuarono a testimoniare, dove le gallerie organizzarono mostre e vernissage, dove la vita culturale, nonostante la biblioteca devastata, non venne mai fermata. Non lasciarsi uccidere da vivi. Continuare sempre a suonare. Come fu per Sarajevo.







sabato 15 novembre 2025

Sarajevo, tornare a casa

Sarajevo e’ islamica, ortodossa, ebraica, cattolica, pagana. Sarajevo e’ romana, ottomana, austroungarica, mitteleuropea. Sarajevo e’ giocosa come gli anziani signori che si sfidano a scacchi per strada ed e’ studiosa come i ragazzi pieni di libri e appunti a ogni caffè. Sarajevo e’ un mix in equilibrio precario, il cuore di questo paese che si chiama Bosnia e che ti fa sentire a casa non appena ci appoggi il piede. Forse per questo in tanti, come ci ha raccontato Ermin ieri, qui si sono fermati e son convissuti per secoli: alle venti, proprio all’incrocio della strada principale, la voce del muezzim che arriva dalla moschea si mischia con quella delle campane della cattedrale del Sacro Cuore, a due passi dalla sinagoga e poco oltre la chiesa ortodossa. E quando è periodo di Ramadan, al suono del cannone che segna il momento dell’Iftar, il pasto serale da consumare insieme, lo spiazzo davanti alla Fortezza Gialla si riempie di persone con le proprie cibarie e la città tutta e’ in festa. Come le cuccette dei treni notturni che negli anni Novanta ci portavano da Milano a Lecce ogni estate e, passato Rogoredo, iniziava quella cena condivisa coi sapori del sud. Ovunque l’odore del nostro ritorno a casa.






Galerija 11/07/95 - Sarajevo

 

Per Srebrenica le parole non paiono abbastanza precise. Il vocabolario viene meno, si fa deficitario, silente, inadatto. Le immagini disponibili non sono abbastanza. Non lo sono nemmeno le ossa. Così alla Galerija 11/7/95 hanno fatto un lavoro immenso e coraggioso. Visto tutto quanto mancava, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, hanno tolto ancora invece di mettere altro. Via il colore, via il contorno, via il ridondante. Sono le vite e le morti degli uomini a raccontare.
A 30 anni dal genocidio di Srebrenica, a 30 anni dall’assedio di Sarajevo, la paura che ho sentito nel preparare questo viaggio sta proprio qui: stavo rimettendo mano in qualcosa che, come cittadini europei, abbiano in fretta rimosso, allontanato, pacificato. Non abbastanza libri, non abbastanza film, non abbastanza podcast, non abbastanza nulla. Ciò che esiste è quasi sempre meritorio e per me è stato prezioso come bussola nel mare, ma dovremmo esserne circondati sempre. Dovrebbero esserci interi settori nelle librerie e nelle biblioteche e capitoli nei programmi scolastici, nella universita’, nelle discussioni in famiglia, nei dibattiti pubblici. E invece no. Passato, superato, appianato.
Oggi Ermin -che nel 1995 e’ fuggito in Italia novenne con la sua famiglia prima che tutto nella sua terra fosse annientato- ci ha chiesto perché siamo venuti a Sarajevo. La verità, credo, è che oggi in questa Gerusalemme d’Europa - meravigliosa e luminosa e immensa e profonda - ci ha portati Gaza. Come l’angelo della storia di Benjamin: il volto e lo sguardo verso un cumulo di macerie, le ali spiegate dal vento a spingerlo verso il futuro.
Quando abbiamo percorso il tunnel segreto che permetteva a Sarajevo assediata di ricevere rifornimenti e armi e viveri, Adair ci ha domandato invece di sintetizzare in una parola sola nella nostra testa cosa si provasse a pensarsi lì. Cosa si provasse a trovarsi qui. Una parola soltanto, senza aggiungere altro. E nonostante tutto - proprio per tutto - la mia di parola rimane speranza. Se non fossi stata qui, non sarebbe stata la mia parola. Allora forse a Sarajevo veniamo in pellegrinaggio per questo. Per ritrovare speranza.





L'assedio di Sarajevo

 “Come ha potuto Sarajevo resistere a 1425 giorni di assedio? Come è sopravvissuta nonostante le granate, i cecchini, la fame, la mancanza di tutto, le morti?

Ha resistito perché c’erano le donne. Ha resistito perché è continuata la vita. Se le donne fossero scappate, se avessero usato il tunnel per andare via, se il teatro si fosse interrotto, se il mercato avesse chiuso e la vita fosse stata sospesa, non ci sarebbe stata più nessuna ragione per continuare a proteggere la città”.






venerdì 14 novembre 2025

Sarajevo, Sarajevo

Delle primissime ore qui dovrei portarmi dietro la luce sul legno della fontana Sebilj (bevi la sua acqua, tornerai a Sarajevo), gli artigiani che battono il rame a bascarsija, le rose di Sarajevo che venivo a cercare (buchi di granate riempite di vernice rossa perche’ l’unico modo per andare avanti è non cancellare), la preghiera alla moschea di Gazi Husrev Begova coi suoi infiniti gatti. E ci sarà tutto e tutto porterò.

Ma più di tutto oggi ci saranno:
-il signore che nel piccolo panificio di fronte a casa ci offre il burek con patate quando capisce che la signora al banco non può accettare euro ne’ carta (lui non sente ragioni, dobbiamo provare il burek, lo offre lui. E ci commuove)
-Adair che abbiamo conosciuto solo oggi e pare un amico di sempre e ci racconta di suo padre e di suo nonno che hanno fatto la guerra (e domani sarà una giornata su questo, ragione prima e ultima dell’essere qui)
-la azdora bosniaca nella cucina di Zara is Duvara, dove l’ingrediente principe di tutto sono le ortiche: selvatiche e potenti e ruvide come tutto quello che fa star bene anche se all’apparenza non lo diresti di certo
-Riccardo che si ferma al market e fa scorte di pappa per gatti, perché qui i gatti di strada sono di tutti e tutti danno loro cibo e crocchette (figurarsi lui! Ora vuol diventare il loro eroe e rilancia con stick golosi conservati a manciate nelle tasche).
Sarajevo, le sue colline, la sua gente.
Tutto quello che stavo leggendo e studiando e guardando. Ma molto più intenso, luminoso e possente e raccolto di quanto mai potessi immaginare.
Post scriptum: l’acqua della fontana, appena arrivati qui, l’abbiamo bevuta.



domenica 2 novembre 2025

Nan Goldin, dai Rencontres all'Hangar Bicocca

 

«A volte è dentro di noi qualcosa che tu sai bene cosa perché è la poesia,
qualcosa di buio in cui si fa luminosa la vita.» — Pier Paolo Pasolini

C’è qualcosa di violentemente vero, quasi animalesco, nell’opera di Nan Goldin. Una verità che non fa sconti, che non crea distanza, che ti guarda dritta negli occhi mentre racconta ciò che spesso preferiremmo lasciare alle ombre. Quest’anno, tra Arles e Milano, abbiamo avuto modo di ritrovarla, o forse di essere ritrovati da lei: dalla sua brutalità tenera, dal suo rispetto feroce per gli esseri umani che ha fotografato per una vita intera.

Chi è questa donna formidabile? Una che ha sempre scelto la vita, anche quando faceva male.
Premiata da Les Rencontres d’Arles per un lavoro che «testimonia la complessità delle relazioni amorose e del potere, dando voce alle donne e alle persone invisibili», Goldin — nata nel 1953 a Washington D.C. — è una delle voci più radicali della fotografia contemporanea. La sua indagine sull’esperienza umana è ormai un’eredità culturale, un corpus che ha segnato generazioni come una cicatrice che non smette di pulsare.



Nan Goldin.
Young Love, 2024.
Courtesy of the artist / Gagosian


Dalla Ballad of Sexual Dependency, che dagli anni ’70 e ’80 ha seguito comunità bohémien tra Provincetown, New York, Berlino e Londra, ai ritratti degli amici, degli amanti, dei compagni di strada: Goldin ha sempre fotografato così, con una ruvida tenerezza. Nel quotidiano, nel sesso, nella festa sfrenata, nei momenti di intimità violenta e fragile. Il suo obiettivo è stato un testimone e un complice, un modo per custodire ciò che stava scomparendo: l’amore, la dipendenza, la libertà prima dell’AIDS, una giovinezza vissuta ai margini e contro le regole.

Eppure, ad Arles, la città della luce, Goldin sorprende ancora una volta. Non è la luce che le interessa — mai davvero — ma il punto in cui la luce cede, dove vacilla, dove apre una crepa che permette al buio di affiorare.
Stendhal Syndrome (2024) è forse il suo modo più chiaro per dirci che la bellezza, quando è troppo grande, quando ti investe senza pietà, può farti crollare. Qui mette in dialogo vent’anni di scatti a capolavori classici, rinascimentali, barocchi — Louvre, Met, Borghese, Gemäldegalerie — con i ritratti dei suoi amici e amanti trasformati in figure mitologiche: Galatea, Orfeo, Ermafrodito. Le Metamorfosi di Ovidio come un palinsesto privato, un modo per dire: anche la mia comunità è storia, anche loro meritano la grandezza, il mito, la verticalità della bellezza antica.
La sua voce, insieme alla colonna sonora di Soundwalk Collective e Mica Levi, porta dentro un ritmo che è liturgia e confessione, un battito che non si assesta mai.

Ad Arles, tra il riverbero abbacinante delle strade e il silenzio sospeso delle sale, si capisce con chiarezza che Goldin non si accontenta della luce. Ci passa attraverso per arrivare altrove. Nel buio in cui si fa luminosa la vita, direbbe Pasolini.

A Milano, all’Hangar Bicocca, la retrospettiva This Will Not End Well ci fa entrare nel suo villaggio interiore: padiglioni come case temporanee progettate da Hala Wardé, luoghi pensati per abitare uno sguardo. E qui il buio è ancora più feroce, più vero. Dai capolavori storici come The Other Side o Sisters, Saints, Sibyls, al trip claustrofobico di Memory Lost, fino ai viaggi nell’estasi di Sirens: Goldin non vuole consolare nessuno. Vuole che guardiamo. Vuole che restiamo. Vuole che restiamo umani.

I nuovi lavori, You Never Did Anything Wrong e ancora Stendhal Syndrome, portano tutto questo oltre, verso un’astrazione poetica che parla di vita, morte, cicli naturali, miti antichi e corpi contemporanei. Come se l’artista avesse iniziato a guardare il mondo da un punto più alto, più stanco forse, ma ancora profondamente innamorato della vita.

Perché, nonostante il titolo — This Will Not End Well — ciò che Goldin porta con sé è, forse, una joie de vivre incrollabile, una vitalità che nasce proprio dal riconoscimento del dolore, dall’onestà con cui attraversa il buio.

E allora Arles — città di luce, città di Van Gogh, città che abbaglia — diventa il luogo perfetto per dirci questo: che la fotografia di Goldin non è luminosa perché ritrae la luce, ma perché la cerca dove nessuno guarda. Nel fondo, nel taglio, nelle cicatrici. Come Pasolini.




Nan Goldin.
Young Love, 2024.
Courtesy of the artist / Gagosian.

lunedì 6 ottobre 2025

Letizia Battaglia, tenere per mano il bianco e nero

Incontrare Letizia Battaglia ad Arles significa ritrovarla com’era: con i suoi capelli rosa, quel caschetto strambo e determinato, la frangia sugli occhi sempre vigili — un po’ stanchi, un po’ bambini — e la sigaretta tra le dita. Una voce roca che voleva dire, spiegare, raccontare. E raccontare ancora. Fino all’ultimo momento.

Tenendo per mano il bianco e nero, come si tiene per mano un figlio difficile, una verità che non si vuole lasciare scappare.

La mostra restituisce le sfaccettature della sua vita: dagli esordi negli anni Settanta al ritorno in Sicilia, dal lavoro di strada al suo impegno sociale instancabile. Le sue immagini non filtrano, non alleggeriscono: mostrano la ferocia della violenza mafiosa, ma anche l’ostinata dignità dei più fragili, le contraddizioni e la bellezza di Palermo, delle sue donne, dei suoi quartieri, dei suoi fantasmi.
Letizia guarda e non distoglie lo sguardo. Guardare, per lei, era un atto politico.

Eppure ad Arles, mentre ci si muove tra le sue fotografie, capita spesso di pensare a Maria Lai. Forse perché le donne delle isole si riconoscono tra loro: portano nelle mani lo stesso filo, la stessa pazienza, la stessa necessità di raccontare il vero. Sono “fate morgane”, per usare il titolo della mostra milanese di Palazzo Morando, donne che intrecciano leggende terrestri, memorie dure, visioni luminose.

Lai cuciva il mondo, Battaglia lo fotografava. Entrambe, a modo loro, hanno tenuto insieme ciò che rischiava di sfilacciarsi: le storie degli ultimi, delle comunità dimenticate, dei corpi esposti alla violenza o alla miseria. Hanno raccontato le isole senza addolcirle, senza tradirle.

Ad Arles, tra la luce della Provenza e il silenzio delle sale, le immagini di Letizia Battaglia sembrano parlare con la sua voce roca, la sua tenerezza dura, la sua urgenza. Ed è come incontrarla di nuovo.



Letizia Battaglia, Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile, sul luogo di un omicidio a Piazza del Carmine. Palermo, 1978 © Letizia Battaglia / Courtesy of Archivio Letizia Battaglia


domenica 17 agosto 2025

I cervi selvatici del parco di Dublino

Il primo giorno a Dublino siamo passati al Phoenix Park a cercare i cervi, ma senza successo. L’ultimo giorno ci siamo fermati per caso per una sosta (leggi: pisolino della sottoscritta mentre Rj esplorava la zona). E quando di improvviso ho aperto gli occhi come per un sentore, eccoli lì i 600 cervi selvatici di Dublino, molti dei quali orgogliosi discendenti di cervi che correvano in questa riserva naturale già nel 1600. Quasi quasi ci sarebbe da creare anche il loro di albero genealogico!






venerdì 15 agosto 2025

Maddalene d'Irlanda

Quando uscì “Magdalene” di Peter Mullan, andai al cinema a vederlo con Lorella, collega libraia alla Feltrinelli di via Manzoni. Erano sempre gli anni dell’università e anche degli esami di cinema, ma miglior insegnante di Lorella per quanto riguardava i film non avrei potuto trovarla. Lei vedeva praticamente tutto quanto passava ai festival, soprattutto in lingua originale, e aveva una passione per Ken Loach e una per ’Irlanda. Quella sera uscii dalla sala terrorizzata. “Magdalene” narra, con decenni di ritardo, la storia delle donne irlandesi “perdute” e recluse, cui vennero sottratti i figli e cui fu elargito in cambio un carico di vergogna, dolore, violenza. Le Magdalene Sisters sono un’altra delle ferite di questo paese, meno evidente a un primo sguardo - e forse anche per questo ancor più profonda e radicata - costantemente all’onor di cronaca, perché sepolture che riguardano le Magdalene e i loro bambini fanno periodicamente capolino sui media. Una di quelle ferite per cui è difficile immaginare medicamenti, se non la ribellione - come quella di Edna O’Brien, delle sue irrefrenabili e ironiche “Ragazze di campagna” e di tutte le donne irlandesi che dell’oppressione cattolica si sono, con fatica, determinazione, coraggio, definitamente liberate. Liberate tenendosi però a stretti denti l’essenza di uno spirituale femminile evidente e potente, come quello di Santa Brigida, che prima che cristiana era la dea madre Brigid, celtica fino al midollo, quasi come la croce che porta il suo nome. In gaelico la preghiera per lei fa più o meno così “A Naomh Bríd a Mhuire na nGael, scar orainn do bhrat” - che sarebbe qualcosa come “Oh Brigid, Mary of the Gael. Spread your mantle over me, where ’ere I am, where ’ere I be”.






La Rocca di Cashel





La Rocca di Cashel, ovvero dove la conversione degli antichi celti a opera di San Patrizio ebbe inizio. Ma forse, nel caso dell’Irlanda, fu più una commistione di fedi e tradizioni. Un po’ come la croce celtica.


 

giovedì 14 agosto 2025

I cavalli irlandesi dell'Irish National Stud & Gardens

Dopo essere stato di guarnigione in India, dove aveva studiato il buddismo e le filosofie orientali e si era avvicinato all’astrologia, a inizio Novecento il Barone William Hall Walker penso’ di trasferirsi in Irlanda del sud e aprire un maneggio sui generis poco lontano da Kildare, la città di Santa Brigida. Qui ai puledri veniva letto l’oroscopo e ogni decisione veniva presa in base ai suggerimenti delle stelle, nessuna eccezione, nemmeno per i cavalli campioni. Oggi quel luogo è uno degli allevamenti più importanti al mondo (pur avendo rinunciato all’oroscopo equino) e rappresenta le scuderie nazionali del paese, coi suoi paddock sterminati, i box accoglienti e persino un giardino giapponese che pure rientrava nelle passioni sfrenate dell’eccentrico Sir. A cavallo sono andata solo due volte, da ragazzina, tagliandomi tutte le nocche tanto tenevo strette le redini. Ma la bellezza di queste creature qui oggi mi ha fatta sentire proprio la ragazza (polpetta) che sussurrava ai cavalli (irlandesi).










Pellegrini a Glendalough

Oggi abbiamo percorso un pezzo del sentiero di San Kevin, rampollo di nobili origini che lasciò tutto, si fece eremita e venne a stare a Glendalough, in gaelico “la valle tra i due laghi”, cui la tradizione vuole che lo condusse un angelo. Qui fu raggiunto da altri monaci e la sua storia, tra corvi, falchi, cervi e dialoghi in natura, ricorda un po’ quella del nostro Francesco. I resti del sito monastico sono nel bel mezzo del Wicklow Mountains National Park e mostrano ancora una volta come questi religiosi sapessero scovare luoghi già di per sé mistici aggiungendovi la loro fede e lasciando che vi si espandesse a pieno giro. Tra le cose che mi sono annotata:

-tutte queste tombe e croci stanno (e stavano) nel mezzo della vita dei monasteri che stiamo esplorando. Non cimiteri a lato della chiesa madre, ma monaci che -seppure in altre forme- tutto sommato rimanevano coi loro compagni, che per spostarsi da un lato all’altro ogni giorno li incrociavano, ogni giorno li “vedevano”
-i resti della Refeert church, sorta lì dove un tempo si trovavano probabilmente antiche sepolture precristiane. In una nicchia sul muro, c’è un piccolo altarino con offerte dei pellegrini di oggi, noi inclusi, in una linea temporale che supera le religioni storiche che conosciamo
-la croce di Jane Byrne - morta nel 1873 eppure c’è una corona di fiori secchi sulla sommità a omaggiarla
-siccome qui spirituale e misterico permangono, i monaci consigliavano e consigliano ai pellegrini di dormire in zona per assorbire il buono che da queste parti si genera e resiste (nonostante gli assalti vichinghi, quelli inglesi e il resto). Il loro eremo non aveva posti liberi quando li avevo contattati, ma abbiamo trovato a pochi km una casa nel bosco. Stanotte saremo qui. Vi sapremo dire domani come sono andate le cose (dimenticavo: arrivando ci ha accolti un enorme falco pellegrino. Non lo avevo mai visto e la mia anima falconiera, io che però dagli uccelli son pure terrorizzata, se ne andrà comunque a letto felice).








mercoledì 13 agosto 2025

Irlanda: persone apparizioni

 Tra le persone apparizione di questo viaggio, porterò sicuramente a casa:

-Rosemary, isolana delle Aran Island che ha ereditato dai suoi avi di fine Settecento l’arte della lavorazione della lana da cui discende il maglione blu petrolio che viene con me in Italia. Rosemary ha ricostruito la storia di suo padre e di sua nonna, risalendo su su e conservando la ruota della bisnonna (nella tasca del maglione, mi sono accorta rientrata sulla terraferma, c’era una chiave, così ho contattato Rosemary e per fortuna era un doppione ma insomma mi è sembrata cosa un po’ fatata e mi ha ricordato la chiave della signora Milu’)
-Mick Langan, una delle tre guide residenti a Skellig Michael. Mick è come un guardiano del faro-profeta e sprigiona saggezza: ci ha accolti all’arrivo sull’isola raccomandandosi di tornare alla base sani, interi, felici. In parole spicce, prima di lasciarci salire lungo il sentiero bordo scogliera si è raccomandato di non fare sciocchezze, non essere intrepidi, non spingerci oltre e, semplicemente, di non morire. Perché, ha detto, non è importante dove si arriva e cosa si fa ma l’essere consapevoli del dove si è e cosa si ha (invece di ciò che non si ha). Lo diceva perché in diversi tentano di arrivare in cima facendosi male, scivolando o tralasciando i segni del corpo quando l’aria dell’Atlantico dà alla testa e fa venire le vertigini: “La scorsa settimana qui non è sbarcato nessuno causa maltempo. Sentitevi fortunati ad esssere qui ora, anche riusciste a salire uno soltanto di questi gradini. Voi oggi siete a Skellig”. Fotografo esploratore di Artico, Groenlandia, Tibet, Canada, Mick ci ha messo oltre 10 anni a vincere l’application che gli ha permesso di abitare qui. Solo lui e due colleghe, per pochi mesi all’anno, con la compagnia saltuaria degli operatori dell’Office of Public Work, che l’altro giorno sono sbarcati poco dopo di noi con tutte le loro attrezzature per verificare lo stato del sito, delle pietre, delle pavimentazioni. Una vita a parte, in mezzo all’Oceano, al grado zero delle cose e all’essenza ripulita di tutto
-Michael, isolano delle Aran che col suo piccolo pullmino invece che indicarci solo le mete classiche lungo la via ha fatto piccole deviazioni dai vicini per vedere il cavallino appena nato del cugino e mostrarci la scuola dove vanno i pochi bimbi di Inshimore -il giardiniere che io non ho incontrato ma Ric si’ e gli ha fatto i complimenti per il parco magnifico in cui siamo rimasti tre notti e lui, con la sua barba lunga e la pompa dell’acqua in spalla, ha risposto: “macché, tutto merito della natura qui”
-Willie e Trish, skipper e capitano della Skellig Falcon, barca del mio cuore. Lui: per tutta la traversata ha tirato corde, controllato la via, offerto (al ritorno) lecca lecca colorati rigeneranti dopo la lunga salita. Lei: mi ha fatta saltare su e giù dalla barca per lo sbarco e imbarco da brivido e ha seguito delfini tra le onde
-il ranger che al Killarney si è fermato per dirci da che parte guardare perché di lì a breve le aquile avrebbero volato alto sopra le nostre teste