Roma è una città che adoro perché è intrisa di storia e di mitologia. Una storia luminosa, come il sole che ti accompagna quasi sempre per le strade della nostra caput mundi. Istanbul, però, è intrisa di spirito. C'è una nebbia diffusa lungo il Bosforo, ci sono profili sfumati, mai netti, mai definitivi. Istanbul è maestosa quanto Roma ma di una maestosità misteriosa e lontana. Nel suo saggio su Leskov, Benjamin sostiene che l'arte del romanzo sia legata alla lontananza: lontananza nello spazio (da cui nascono le storie dei viaggiatori) e lontananza nel tempo (da cui prende vita la narrazione degli artigiani e dei contadini che trasmettono ai figli le loro antiche tradizioni e quindi la loro essenza). Istanbul per me è la città della lontananza, una città da romanzo. Non solo per il soggiorno che vi fecero i grandi (da Flaubert a Virgina Woolf, da Loti a Agatha Christie che stava al Pera Palace Hotel dove stavo anche io e dove scrisse Assassinio sull'Orient Express).
Non solo per l'iconoclastia e l'arte (intrecciate qui più che in qualsiasi altro luogo).
C'è Santa Sofia, certo. Un'antica chiesa intitolata a alla sapienza e poi trasformata in moschea e poi aperta a tutti, come lo è ora, in un accavallarsi di funzioni e spiriti che fanno venire le vertigini suscitando l'invidia delle biblioteche di Borges.
Non è nemmeno solo questo, però.
A Istanbul accade qualcosa quando respiri.
Forse però, come diceva Sallustio, queste cose non accaddero mai, ma sono sempre.