lunedì 10 marzo 2014

Il romanzo di Costantinopoli

Istanbul ti prende e ti porta via. Gli antichi viaggiatori la raggiungevano via acqua e quasi tutte le navi, secondo i racconti, entravano a Costantinopoli sul far del giorno. Allora i mozzi avvertivano gli assonnati naviganti che era tempo di salire sul ponte per osservare il profilo di Santa Sofia tra lo stridio acuto dei gabbiani e la brezza dell'alba.


Roma è una città che adoro perché è intrisa di storia e di mitologia. Una storia luminosa, come il sole che ti accompagna quasi sempre per le strade della nostra caput mundi. Istanbul, però, è intrisa di spirito. C'è una nebbia diffusa lungo il Bosforo, ci sono profili sfumati, mai netti, mai definitivi. Istanbul è maestosa quanto Roma ma di una maestosità misteriosa e lontana. Nel suo saggio su Leskov, Benjamin sostiene che l'arte del romanzo sia legata alla lontananza: lontananza nello spazio (da cui nascono le storie dei viaggiatori) e lontananza nel tempo (da cui prende vita la narrazione degli artigiani e dei contadini che trasmettono ai figli le loro antiche tradizioni e quindi la loro essenza). Istanbul per me è la città della lontananza, una città da romanzo. Non solo per il soggiorno che vi fecero i grandi (da Flaubert a Virgina Woolf, da Loti a Agatha Christie che stava al Pera Palace Hotel dove stavo anche io e dove scrisse Assassinio sull'Orient Express).


Non solo per l'iconoclastia e l'arte (intrecciate qui più che in qualsiasi altro luogo). 
C'è Santa Sofia, certo. Un'antica chiesa intitolata a alla sapienza e poi trasformata in moschea e poi aperta a tutti, come lo è ora, in un accavallarsi di funzioni e spiriti che fanno venire le vertigini suscitando l'invidia delle biblioteche di Borges. 
Non è nemmeno solo questo, però. 
A Istanbul accade qualcosa quando respiri. 




Forse però, come diceva Sallustio, queste cose non accaddero mai, ma sono sempre. 

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