Entrare nelle stanze piacentine della Maestra Gabriella Cella e praticare con lei, dalla propria casa. Gli dei danzano anche nell’anno pandemico e si ingegnano per trovare vie nuove, nuove onde e nuovi collegamenti. Anche via zoom. E sì, nel breve video c’è Riccardo che si affaccia nella stanza perché sente strani suoni di antichi mantra!
domenica 15 novembre 2020
lunedì 12 ottobre 2020
Yoga Festival 2020
All’inizio avvicinarmi all’Oriente - impregnata di classici e di Grecia come sono, impregnata di sillogismi e di tutti gli uomini sono mortali e Socrate è un uomo e quindi Socrate è mortale - è stato per me un continuo mettere in discussione ogni cosa. È stato (ed è) un perenne dubitare e testare e studiare. Un perenne rimescolare, un perenne ricercare. All’Oriente però sempre torno attraverso i quanti, attraverso gli sgabelli di Rovelli che non ci sono però ci sono, attraverso le intuizioni di Capra e i canti orfici che di la’ facevano già tendere le orecchie e ancora attraverso il Libro Rosso di Jung e My Sweet Lord di George Harrison e la gran luce che fece quando andò via.
E poi all’Oriente torno con il corpo, torno con lo yoga che mi fa sentire dove scovare il mio respiro, in quale punto del piede, in quale dito della mano. Torno quando lascio che sia il corpo a dirmi verso quale orizzonte guardare e in che modo lasciarsi andare alle onde. Grazie a @drumayoga e allo YogaFestival (scrupolosamente, perfettamente, amorevolmente organizzato anche in periodo covid) per aver di nuovo connesso le due facce della medaglia con pratiche intense e lezioni bellissime. E grazie sempre a Helga Cavone che fa vibrare le cose. E a Riccardo Bianchi che prima di tutti ha capito che era tempo di avere un tappetino yoga tutto per me. #Yogafestival #yogaeklesa #taodellafisica #helgoland #carlorovelli #fritjofcapra #cristinabiogli #sergiobusi
lunedì 28 settembre 2020
Sky in the Room
Quando stavamo chiusi in casa, abbiamo cercato il cielo dentro le nostre stanze. Le avremmo scoperchiate per respirare più intensamente, avremmo voluto urlare certe volte, e liberarcene. È una cosa vicinissima eppure pare già lontana decine di galassie, una cosa di quelle da cui scappi pensando che si possa cancellare, sopprimere, emendare, riscrivere in modo diverso. L’islandese Ragnar Kjartansson fa l’esatto contrario: prende la Chiesa di San Carlo al Lazzaretto (che sta lì dove un tempo c’era l’altare che confortava gli appestati), prende una canzone che dice esattamente quel che è stato e, con naturalezza estrema e quasi disarmante, inizia a pregare. Inizia a farci pregare. Un mantra con le parole di Gino Paoli e le note dell’organo. Tutto piccolo, raccolto, prezioso, tutto così semplice da lasciare finalmente muti. Poche persone alla volta, moltissimo senso, altissima densità.
Ripartire dal silenzio, dalla musica, dalle idee, dalle connessioni. Un nuovo Libro (bianco) di Jung.
E questa stanza, ora per davvero, non ha più pareti, ma alberi.
Sky in the room
sabato 13 giugno 2020
Yoga e lockdown
Questa sono io fotografata di soppiatto da Ric a metà marzo, durante il lockdown. La cosa immensa che ci stava capitando (la cosa immensa che ci sta capitando) mi ha riportata al bardo del Libro dei morti tibetano: quello stato di sospensione tra una vita che finiva e una nuova che poteva e doveva iniziare. Nello stesso momento in tutti i paesi del mondo eravamo sospesi, nello stesso momento tutti insieme stavamo vivendo la stessa potentissima, sconvolgente cosa. Tutti dentro un ciclone, in punti diversi ma sempre in tempesta, come non era mai accaduto prima. Il mio lockdown mi ha ricordato ogni giorno che per pensare serve il corpo più che la testa. E senza lo yoga e il mio tappetino scuro su pavimento bianco non avrei sentito quello che ho sentito. Avrei sofferto meno (forse) ma avrei anche camminato e pensato e osservato meno. Avrei captato meno. Avrei avvertito meno. La scorsa domenica, a palestre riaperte, sono tornata a yoga per davvero. Ma poi oggi, per la prima volta, ho praticato con la mia classe e la mia insegnante di sempre. E abbiamo gettato fuori tutto quello che dovevamo gettare: un’energia e un odore da animali feriti, spaventati, sperduti. Quella cosa bollente lì che c’era nella stanza ci ha portati un po’ tutti alle lacrime, graffiandoci in faccia e facendo male. E poi ce ne siamo liberati. Perché la avevamo di fronte e la trasformavamo in qualcosa di diverso. Questo voglio tenermi. Non scordarmi un istante della belva. Non dimenticarmi mai del dimenticato. Come Kafka. E pensare che si’. C’è speranza. Infinita speranza. Forse non per noi, ma quest’ultimo dettaglio in fondo, ora che so che siamo tutti connessi, non conta quasi nulla. Namaste.