mercoledì 31 luglio 2024

L'Abisko Park

 Nel parco svedese dell’Abisko, che in lingua Sami infonde poesia e significa “foresta oceanica”.

Una foresta che si compone di canyon precipitosi, dispiegarsi di betulle e brughiere e distese di muschi e licheni, inframmezzati da prati interi di questi fiori viola/rosa che quasi nessuno sa come si chiamino (ma oggi mi sono impuntata e ho intervistato Morten che mi ha spiegato che in inglese li chiamano fireweed -erba di fuoco- mentre da noi li diciamo camenerio e son fiori preziosi per combattere la tosse e son pure i primi che rispuntarono vivaci dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale). Qui ad Abisko pare sia pieno di studiosi e ricercatori e botanici, oltre che di escursionisti che percorrono il Kungsleden, cioè il Sentiero del re che di kilometri ne conta oltre 400 ma noi oggi ci siamo accontentati dei primi sette. Ma quando torneremo a casa, seppur non botanici, avremo memorizzato quantomeno il nome di questo strepitoso, regale camenerio che ci ha conquistati e che non avrebbe sfigurato nel giardino di Monks di Virginia. E meditare quassù come suggerisce il cartello, diciamocelo, fa tutto un altro effetto.






Una Husky Farm nella terra dei Sami


Stanotte saremo qui. In una fattoria organizzata un po’ come una comune -sostiene Ric- in cui allevano husky e organizzano spedizioni proprio al confine dell’Øvre Dividal National Park, il parco che si affaccia verso la Svezia. Le varie cabine in legno con tetti ricoperti d’erba sono state costruite a partire dagli anni Ottanta da una famiglia tedesca che si è trasferita in Norvegia per crearsi una vita nuova.



Bjorn, Morten, Anne e Alexander non erano allevatori. Sono rispettivamente fotografo, economista, bioingegnere e guida artica che si son reinventati per cambiar tutto. A loro si aggiungono oggi il figlio biondissimo di Anne e Morten, che ti accoglie a piedi nudi e adora la pasta con le polpette al sugo, e il nuovo piccolo in arrivo (la gravidanza di Anne e’ così avanzata che Ric teme che possa accadere nottetempo ed è un filo agitato). Stasera abbiamo mangiato tutti insieme un sacco di verdure dell’orto, con annessa pasta, con un lungo tavolo di viaggiatori olandesi e tedeschi. E se è certo che le storie di vite rivoluzionate (“mollo tutto e vado ad allevare capre in Irlanda”) e’ il mito da cui più pariamo incantati, ci dobbiamo sempre sempre sempre ricordare che nella natura la fatica e’ tostissima e le bucoliche non son fantasie di Eden passati quanto piuttosto di Eden mai davvero esistiti. Perché da Morten e Anne certo si possono seguire i Sami mentre marcano i piccoli di renna e andare in slitta ed esplorare le possenze senza eguali di quassù, ma si deve anche pulire le cucce degli husky e dar loro da mangiare (sono oltre ottanta) e pure coltivare l’orto, nutrire le galline, far manutenzione alle cabine, assistere i viaggiatori di passaggio, cucinare, rassettare, organizzare.




E insomma seppur la cena alle 17,30 come si usa qui è molto ayurvedica e suggerisce il ritmo lento che tanto agogniamo, la loro vita vera è intrisa di lavoro tosto e mi ha ricordato Clelia Marchi, contadina mantovana di inizio Novecento che il suo quotidiano l’ha narrato su un lenzuolo senza “gnanca una busia”. Una storia che è un capolavoro (grazie Luc per avermela fatta scoprire) e che è assai più legata alle terre della Norvegia del nord di quanto, a un primo sguardo, si potrebbe pensare. E sta proprio lì, non altrove, tutta la poesia che la vita di Clelia e di Morten e di Anne e del bimbo che ama la pasta con le polpette ogni giorno contiene.







martedì 30 luglio 2024

Viaggio a Nord della Norvegia


Tornare al nord e alle terre di frontiera. In una stagione che per loro è quella di bassa, perché chi viene quassù lo fa perlopiù durante la notte polare e quindi ora è tutto pacato, dormiente, rallentato (la gioia di mettere in fila queste tre parole qui, mamma mia!!). Oltre che - diciamolo- la gioia di un fantastico +10 gradi che per chi arriva dalla rovente Milano significa godersi appieno il proprio piumino (al solo sentirmi usare questo termine, ieri my sister ha avuto un mancamento).

L’esplorazione nella terra dei Sami (quelli che malamente un tempo chiamavamo lapponi) e’ cominciata in Finlandia qualche anno fa e poi è proseguita su libri e papers vari nei mesi prima di questa nuova partenza verso la Norvegia, quando la ragazza polpetta, che di secondo lavoro fa la stalker patentata, ha contattato non so più quanti docenti e studiosi e curatori. E tutti (santi subito) le hanno risposto! E anzi hanno rilanciato inviando volumi digitali, consigli e suggerimenti accuratamente annotati nel taccuino di viaggio.
Così nella Tromso di Amundsen per prima cosa ci precipitiamo al Nordnorsk Kunstmuseum dove la voce dei Sami dialoga con quella di altri nativi e del Pulitzer Navajo Raven Chacon, che esplora i suoni affini e butta giù i pregiudizi a colpi di ritmo e grafismo. Perché per i Sami così come per l’artista Ingunn Utsi, per dirne una, le pale eoliche sono l’ennesimo scempio sulla via delle renne. Come a ribadire: anche nella presunta ecologia, noi altri teniamo stretti un sacco di stereotipi che forse sarebbe ora di rivedere. Come gli stereotipi dei Sami solo tradizione e costumi colorati. Eccoci quassù per provare, anche a questo giro, a rimettere tutto in discussione ed aprirci all’eco delle terre di frontiera, ai Sami contemporanei che creano un’arte che parla dei loro antenati e quindi pure di noi, e degli esploratori che, comunque vada, partono alla ricerca di chi si è sperduto tra i ghiacci (che qui poi, lo sappiamo bene seppur fingiamo di scordarlo, la natura domina ancora senza far quasi nemmeno un plisse’).